“Come l’aria” di Melinda Nadj Abonji

di / 12 ottobre 2012


«La tenera cantilena della nonna, il gracidio notturno delle rane, i maiali che scrutano con i loro occhietti suini, lo starnazzare agitato di una gallina prima di venire sgozzata, le viole matronali e le rose albicocca, le imprecazioni rozze, l’implacabile sole estivo, e ancora l’odore delle cipolle rosolate… l’atmosfera della mia infanzia».


Questo breve passo descrittivo ci restituisce con pochi elementi rurali la semplicità dell’infanzia di Ildikò protagonista e narratrice del nuovo romanzo di Melinda Nadj Abonji, Come l’aria (Voland, 2012).


La famiglia serba dei Kocsis, originaria della Voivodina, emigra in Svizzera per cercare fortuna e dopo tante peripezie riesce a ottenere la gestione di una caffetteria. Le due sorelle Ildikó e Nomi sono al centro della vicenda e trascorrono gli anni più spensierati in sospeso tra due paesi: Serbia e Svizzera. Essi rappresentano due mondi diversi e due modi di vivere lontani tra loro. Alla modernità ed efficienza della Svizzera che incarna la speranza nel futuro, si contrappone un passato contadino fatto di piccole cose.
Come l’aria affronta in modo lieve e a tratti spensierato un tema attuale, l’emigrazione nei suoi risvolti quotidiani dall’integrazione nella società fino alla realizzazione individuale. Quando finalmente le due ragazze potrebbero rivendicare tutti i diritti della loro nuova cittadinanza, la sensazione di precarietà non le abbandona: «Qui non abbiamo ancora un destino umano, prima dobbiamo guadagnarcelo».
L’opera è un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio intriso di nostalgia nel senso etimologico del termine (cioè “dolore del ritorno”), pagine e pagine dense e struggenti nella speranza di ritrovare immutato ciò che si è lasciato: «Il nostro Paese non deve cambiare mai».
Gli alberi agli angoli delle strade o lungo i sentieri percorsi accompagnano la famiglia Kocsis in questo viaggio: «Scivoliamo come sull’acqua lungo la strada bordata di pioppi maestosi” e ancora “navighiamo oltre i pioppi, le acacie e i castagni».
L’albero è simbolo di forza e richiama l’immagine di solidità e stanzialità per via delle profonde radici nel terreno, che lo rendono immobile. Gli alberi osservano la vita dei protagonisti, non tanto impotenti quanto incuranti. Alcune volte sembrano volerli esortare a reagire e perseverare nelle proprie scelte, per esempio, fuori dalla caffetteria, «il castagno nudo mostra i pugni» suggerendo che la vita è una lotta e non bisogna mai arrendersi né abbassare la guardia. Altre volte gli alberi incarnano quel pathos che è partecipazione sentita nei momenti di sofferenza: quando il padre Kocsis porta le figlie a conoscere Janka, la loro sorellastra, sono proprio i salici, piangenti per antonomasia, che lasciano sgorgare le loro lacrime cantando una canzone al posto di Ildikó e Nomi che invece devono «fingere di essere di pietra».
Man mano che si procede nella lettura il testo si rivela come un susseguirsi di storie: la storia di del nonno Papuci, della cugina Csilla, del papà, tutti i componenti della numerosa famiglia «hanno un segreto, persino nostra madre, che per molto tempo avevamo creduto di conoscere».
La giovane Ildikó non è onnisciente e la sua narrazione frammentaria si arricchisce in itinere di particolari significativi che rischiarano per un breve istante i contorni di un personaggio, illuminandone il passato. Ogni storia, come la tessera di un puzzle, va a collocarsi in un punto preciso della visione, ma l’unica depositaria di tutti i ricordi è Mamika, la nonna, la memoria vivente di un passato sconosciuto: «Vi racconto quello che so, perchè non dimentichiate mai che può sempre capitare di tutto nella vostra vita, anche le cose più atroci». La sua morte improvvisa metterà a tacere per sempre le storie non dette e anche ogni tentativo di dare un senso alla realtà.



(Melinda Nadj Abonji, Come l’aria, trad. di Roberta Gado, Voland, 2012, pp. 256, euro 14)
 

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