Il destino di Edipo nei “Dialoghi con Leucò”

di / 27 ottobre 2012

«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». È il 27 agosto del 1950. Cesare Pavese annota il suo ultimo messaggio su una copia dei Dialoghi con Leucò. Lo scrittore ha deciso di interrompere, vivendolo, quel «vizio assurdo» che ha caratterizzato tutta la sua esistenza. Come racconta l’amico e biografo Davide Lajolo, il suicidio ha sempre attratto Pavese trasformandosi ben presto nel dolore di uno spasmo dovuto all’incapacità di abbandonarvisi completamente. Nonostante l’unica premura dello scrittore fosse una richiesta di riserbo, il suicidio divenne la lente d’ingrandimento con cui osservare l’immagine dell’uomo, deformandola e oscurando quel continuo tentennare tra fedeltà e tradimento. S’indagò nella sua vita privata, nei timori di un’inadeguatezza sessuale, tra le piaghe di sentimenti tormentati. Delusioni d’amore, una crisi identitaria o forse un atto di forza, una protesta, estrema, contro un’impotenza culturale? Sull’Avanti! Fortini scriveva: «Cesare Pavese è il primo caduto della terza guerra mondiale», un conflitto silente combattuto nella spietata e tragica insicurezza del «disagio della civiltà». Che sia un caso o meno, lo scrittore decise di affidare quelle poche righe del suo congedo a un’opera accolta con freddezza dal pubblico e con perplessità dalla critica, ma che ha in sé i cardini della sua poetica del mito snodata attorno ai concetti di «selvaggio» e di «destino».
Nel dicembre del 1945, in quell’officina d’idee che animavano la casa editrice Einaudi, Pavese inizia a scrivere dei dialoghi ispirati alla mitologia greca. Lontana da un percorso dotto e filologico, nonostante la solida impalcatura culturale, l’opera interpreta il mito come incarnazione di sentimenti, paure, affanni che da sempre animano la natura umana. Con chiari riferimenti a Vico e Kerényi, la poetica del mito si risolve in un esercizio esplorativo verso il mondo delle origini, «primitivo e selvaggio» che, tradotto sul piano culturale, corrisponde ai concetti di rito e di simbolo. Un mito, quello di Pavese, che è allo stesso tempo «necessario e impossibile». La vita infatti implica sempre un investimento di senso e di superstizione in cui la conoscenza scaturisce da una primordiale emozione poetica, mitica. Secondo Pavese è nell’infanzia che si conosce «per la prima volta». La sospensione temporale fa sì che il bambino, senza saperlo, produca le immagini simboliche che tesseranno la trama del proprio mito. In seguito, la conoscenza si trasforma in un riscoprire, richiamare alla memoria, chiarire quanto si è appreso. Tuttavia, il passaggio all’età adulta, afferrando il significato, lo distrugge. Tale contraddizione emerge nei dialoghi, dove il discorso è rilanciato nella sfera dei contenuti esemplari che mostrano l’aporia fondamentale tra la violenza fine a sé stessa e lo sforzo di liberarsene attraverso la legge, il logos. «Potendo si sarebbe fatto a meno di tanta mitologia. Ma siamo convinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo», scrive Pavese nell’introduzione. Il tentativo è quello della ricerca, o ancor meglio della riscoperta, di quel sostrato culturale comune, irrinunciabile e costitutivo che è il mito.
Il dialogo si presta a essere l’ideale punto di partenza da cui smagliare una trama che non sempre interpreta i termini maieutici e, in un certo senso, dicotomici tipici di questa forma letteraria e filosofica. Detto altrimenti, nei dialoghi di Pavese, non sempre è chiaro chi sia portatore di verità e chi viva nell’errore, così attraverso l’incontro di due personaggi si sviluppano i temi che richiamano l’intrinseca essenza di ogni individuo, in cui l’angoscia e la disperazione che si nascondono tra le idee ne drammatizzano lo scambio.
In La strada, il centro della riflessione è costituito dal concetto di destino, un filo conduttore di tracce nascoste, agente sotterraneo che rende inconsapevole la natura degli avvenimenti, trasformando ogni singolo personaggio in un semplice esecutore. Quando il fato si mostra nella sua potenza incontenibile, la tragicità dell’esistenza si manifesta nella propria insensatezza. Il dialogo è concepito come una sorta di coda del mito stesso che Pavese includeva, nei suoi appunti, sotto la voce di «tragedia di uomini, assoggettati al destino ineluttabile». Un Edipo anziano e cieco vagabonda tra le strade e incontra un mendicante.
Per il figlio di Laio, il peso non sta nella sua vicenda, ma nell’impossibilità di sfuggire a ciò che è già stato deciso prima della nascita stessa. «Vorrei essere l’uomo più sozzo e vile purché quello che ho fatto l’avessi voluto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro. Che cos’è ancora Edipo, che cosa siamo tutti quanti, se fin la voglia più segreta del tuo sangue è già esistita prima ancora che nascessi e tutto quanto era già detto…? E la mia febbre è il mio destino – il timore, l’orrore perenne di compiere proprio la cosa saputa. Io sapevo – ho saputo sempre – di agire come lo scoiattolo che crede d’inerpicarsi e fa soltanto ruotare la gabbia». 
Nel cortocircuito, la percezione di una profonda insensatezza si lega all’impossibilità di compiere liberamente una scelta. In questo movimento circolare l’inizio tende a coincidere con la fine, dimostrando come la salvezza sia possibile solo per colui che tornando nei luoghi dell’infanzia non ne subisce la fascinazione. «Tutti abbiamo una montagna dell’infanzia. E per quanto che ci si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero. Là fummo fatti quel che siamo». Edipo è quindi la storia di un ritorno verso casa. Per dirla in termini freudiani, «la situazione antica, di partenza, che l’essere vivente abbandonò e a cui cerca di ritornare al termine di tutte le tortuose vie del suo sviluppo», e che nel mito è raggiunta attraverso la via più breve, ricadendo nella propria origine, nel grembo materno, evitando l’abbandono all’autoaffermazione, la fatica che richiede la maturazione dell’individualità.
C’è un’analogia profonda tra la struttura del racconto (di ogni racconto) e la struttura archetipica del mito di realizzazione di sé che è dentro ciascun essere umano: il mito della crescita e della realizzazione della persona, del viaggio della vita, della trasformazione e dello sviluppo attraverso situazioni di passaggio e di morte-rinascita. Tuttavia, nell’Edipo pavesiano neppure la saggezza acquisita, l’aver compreso la natura ineluttabile del destino, porta a una qualche forma di conciliazione, anzi, Edipo è attanagliato, si potrebbe dire ossessionato, dall’insensatezza della vita; a tale consapevolezza non si arrende, non si dà pace e alimenta il conflitto. Nella lotta tra il mondo titanico (caos) e il mondo degli dei (la norma) si inserisce un nucleo primigenio di violenza e sesso che è insieme presa di coscienza di un limite ed esperienza della morte. Per quanto il rapporto tra il «mestiere di scrivere» e il mito sia allusivo e a tratti imperscrutabile, Pavese ne modella le determinazioni attraverso un linguaggio simbolico in cui il «rintocco del destino» sulla pagina risuona come condanna e insieme salvezza dell’uomo.  

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