“Io sono il Libanese” di Giancarlo De Cataldo

di / 30 ottobre 2012

Chi non ha letto il libro, visto il film, seguito la serie tratta da Romanzo Criminale di Giancarlo De Cataldo alzi la mano! Beh, qualcuno ci sarà, ma anche i membri di questa sparuta minoranza non potranno fingere di non aver mai sentito parlare del Freddo, di Dandi, di Bufalo e del Libanese.

Il giudice scrittore tarantino torna ad animare i suoi personaggi più celebri e non in pochi avranno acquistato questo snello libretto targato Einaudi Stile libero per tuffarsi tra le pagine di Io sono il Libanese, prequel del fortunato romanzo del 2002, ispirato alle gesta terribili della Banda della Magliana.

Nell’ottobre del 1976 la Banda è ancora tutta da fare. Pietro Proietti, 25 anni, in arte il Libanese è un piccolo delinquente con un progetto di cui facciamo la conoscenza in carcere mentre, tale e quale a uno dei gatti di Largo Argentina, inamovibile osserva lo svolgersi di una rissa. L’intervento interessato, all’ultimo momento, a favore di tal Ciro, nipote di Pasquale O’Miracolo, frutterà al nostro l’amicizia del noto camorrista, che gli offrirà poi la possibilità di entrare in un grosso affare di droga. Le centotrenta pagine del romanzo sono una corsa a perdifiato verso i trecento milioni necessari per entrare in società con i calabresi, i siciliani e i camorristi del Professore, e da investire nel viaggio di una nave carica di eroina. Una storia di malavita, quindi, ma non solo. De Cataldo approfitta dell’espediente del prequel per porre al protagonista delle domande su se stesso. Nonostante il futuro si riveli in profetici sogni a occhi aperti, e compaiano, più o meno sullo sfondo, tutti i personaggi che faranno la storia della Banda della Magliana, il romanzo nasconde sotto la scorza una storia d’amore, grazie alla quale è concessa a Libano un’alternativa. L’alternativa ha nome Giada.

I due si conoscono quasi per caso. Lei avvicina il Libanese con scopi scientifici e con l’arroganza naif che i buoni samaritani monteverdini hanno verso i meno abbienti, si convince di poter addomesticare la rabbia che fa del protagonista una belva animata da revanscismo e fame e finisce per immolarsi alla delusione annunciata. Negli anni di piombo e del femminismo militante, Giada parla alle orecchie del Libanese, attraverso le quali ascoltiamo, per la maggior parte del tempo, come da un registratore rotto. L’unica vera posizione ideologica è quella pizza e fichi del marcio tutto da un lato e dell’oro tutto dall’altra mentre il comunismo viene ridotto a fumosi comizi dove si suda e si imbruttisce e il fascismo viene rappresentato da quattro carabattole da nascondere alla fidanzata in visita. Importante e indifferente, tutto e niente, ispirata e illusa, pari e subordinata, Giada è la dea della piccola borghesia annoiata che si china a sfiorare l’uomo, ma che rimane profondamente disgustata dal puzzo della strada. Alla fine di tutto sarà forse per questo rifiuto che verrà punita, in un trionfo di determinismo sociale, e tradita per trenta denari che costeranno al Libanese anche l’occasione di un futuro noiosamente onesto.

A fare da scenografia Roma, che quando compare in un romanzo è sempre, in un modo o nell’altro, protagonista. Dalla penna di De Cataldo emerge una città che, né immacolata né dannata, abbandona i suoi figli per strada a imparare l’arte della sopravvivenza e, di sera, incanta chi la osserva dall’alto del Gianicolo ispirando grandi sogni. Roma che sembra essere terra di conquista, che ispira alzate di ingegno e che permette a tutti di sentirsi sovrani “de’ noantri” fino al momento in cui il Re di turno non le viene a noia e lo ricaccia nella polvere.

Conferma del talento narrativo di De Cataldo, Io sono il Libanese è un libro che si divora in un sol boccone e che fa il possibile per uscire dall’ombra del suo ingombrante predecessore. L’autore produce un’opera che riesce a integrare, senza intaccarlo, Romanzo Criminale. Eppure, ciò che avrà fatto la gioia dei lettori per cui “Misery non deve morire” è anche quanto compromette la maggior parte delle illusioni che la storia vuole suscitare. Il destino che sarà del Libanese è noto: Pietro è destinato a realizzare il suo sogno, altrove lo riconosceremo nell’Ottavo re di Roma, e a morire, e la conclusione della vicenda riesce a strappare purtroppo solo un sospiro di malinconica rassegnazione piuttosto che di reale partecipazione.

 

(Giancarlo De Cataldo, Io sono il Libanese, Einaudi, 2012, pp. 136, euro 13)

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