“Studi sulla notte” di Paulina Spiechowicz

di / 22 novembre 2012

E tu, fantasma adesso sei,
Passeggiando sul bagnasciuga
Con sandali e l’odore della
Plastica ai piedi.
E il cielo è una trasparenza
Di un’estate a Zagabria,
– un mare dai contorni flebili.

Il primo male, Signore

Camminava sui sassi umidi
 

Per il poeta, l’esordio è il momento di impatto tra il proprio sogno di parole e la realtà, semplicissima e cruda; il trauma che modifica l’io dell’entità scrivente trasformandola in altro e non di rado rendendola per lungo tempo afona e cieca. È così che ci appare questo primo canto di Paulina Spiechowicz, marchiato da una doppia luce di preparazione al trauma dell’esistere e l’ingenuo vagare di una cosetta abbandonata, impreparata a essere. La divisione è la chiave per poter aprire proficuamente questi versi alla comprensione. Versi caotici secondo metodo, coscientemente schizofrenici. Spia di ciò il carattere iconico di alcune scelte espressive. E così sono pagine-silenzi che separano la testa di un componimento dalla sua conclusione, rotte appena da un verso, pagine orarie che, lungo tutto il corso della quarta e ultima sezione, «La notte passarmi attraverso», ci informano sul minuto esatto in cui nascono e si fanno i lamenti sottostanti, parole in verticale che ci fanno ruotare fra le mani il rettangolo del libro e parole svagate abbandonate sulla pagina a ribadire in più salse lo stesso concetto: «io parlo da sola».


Cercavo, straniero a me –
Straniero agli altri
L’origine, l’elemento primigenio e ancestrale
– L’innato Caos,
Prima dell’amore, della morte,
Prima della bestia – ad aspettarmi. 

Cercarti era un cercarmi. […]
 

Se poi si prendono le mosse da questa «Asterios», prima della terza sezione «Mitologie e solipsismi», non si potrà non parlare del facile-difficile io che soggiace a tutta la narrazione. O per meglio dire io-altro. Quello che la Spiechowicz compie è una caccia senza tregua alla propria figura riflessa in un infinito rimando dagli altri a sé fino alla curvatura sublime e ineffabile dello specchio contro specchio. A farne le spese ovviamente è il tu. È uno sproloquio irrinunciabile di enclitiche che sterzano al fine il senso del dettato a marcare il tema più potente e ossessivo: «l’aria respirarmi; il rumore […] muovermi; la notte possedermi; impregnarsi il mio sguardo», e ancora, «sono il pensarti; il cielo irrigidirsi; amaro e amandoti; abitarmi d’azzurro; mancarmiti; vivendoti dentro; nell’istante mi muoio…»
Gli istituti nominali hanno perso la propria indipendenza di fatto a favore delle istanze pronominali (di qui la preferenza per la forma infinita) e si mescolano tra loro, con gli esiti che abbiamo definito.
 

La strada è bagnata e il terreno umido
Io è bagnato
Giace la parola sospesa, nell’attesa
E si perde anche il silenzio, altrove […]
 

Se da una parte l’io, o forse ancor meglio l’ego creatore di questa poesia schizzata su carta, fagocita grammaticalmente ciò che gli capita a tiro, e si mescola dolorosamente al creato come in uno sforzo di parto contrario, aborto inclusivo, a tenere la solennità di quel che finisce spesso per contemplarsi nella sacralità del rito, vengono chiamati alla spicciolata un po’ tutti i grandi nomi del Novecento attraverso tutti i generi di invocazione: quella rispettosa e castrante dell’assurzione a parte di titolo (come succede per le madrine in pectore Emily Dickinson e Sylvia Plath), quella dell’esibizione in chiusura (Apollinaire) o apertura (Fitzgerald) di componimento, quella del chiaro far nomi e cognomi (Mister Freud, Sir Lacan, Herr Jung) per poi dirgliene quattro (I hate Freud, I hate Lacan, Fuck Jung) come in «Non abbastanza».
 

Sogno Roma silenziosa
Quando l’alba ancora deve
Arrivare, e solo un sonno
Liscio e bruno si staglia
Per le strade. Sento scivolarmi
Addosso […]


Ma vogliamo indossare ora il punto di vista del lettore, per guardare coi suoi occhi dove potrebbe trovare tutta la dolcezza della ragazza Spiechowicz quando l’Autrice, la Poetessa, concede una tregua ai nervi del suo lamento, per rivedere i luoghi mai visti (forse quelle «Geografie interiori» della seconda sezione) di un’anima fortemente presente al mondo, e fragile nel suo guscio di pietra.
Sarà necessariamente un’altra poetessa romana di adozione, sospesa come la nostra nella confidenza imbarazzata con i suoi tria corda a suggerirci in extremis almeno un sentiero più sicuro da battere tra la miriade di viotti nei quali il lettore amerà perdersi attraversando questi Studi. Proprio come per la Rosselli, resta alla fine di questa prova d’esordio un senso di inadeguatezza formale che il tentativo ordinatore, radicale ed estremo, ha fallito, concludendo la corsa nella curva di un punto interrogativo.
Paulina Spiechowicz è convinta di poter dare una consequenzialità alle cose contandole, scomponendole, analizzandole di minuto in minuto. Eppure la dolcissima ingenuità di questa intelligenza/sensibilità ferrea fa muovere il cuore e l’anima più di ogni altra cosa. E ci permette di sentirci pacificati davanti allo spiraglio che l’autrice ci indica sorridendo. È così, che dopo aver distinto la voce dal verso, si può aspettare serenamente che il canto di Paulina torni a visitarci lungo la nostra strada.  

(Paulina Spiechowicz, Studi sulla notte, Edizioni Ensemble, pp. 96, euro 12) 

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