[TFF30] Sintesi della sesta e settimana giornata del Torino Film Festival 2012

di / 1 dicembre 2012

La pioggia ormai incessante in quel di Torino spinge a chiudersi in sala fino alla fine del giorno, complice un programma giornaliero sulla carta assai interessante.

Si parte con l’anglocubano Una Noche, interamente ambientato a L’Avana ma girato dalla giovane londinese Lucy Malloy. Triste storia di fuga verso Miami da parte di tre teen-ager assai diversi tra loro. Specchio tanto della quotidianità della capitale cubana quanto della nevrosi, dell’ansia e dell’insoddisfazione dei giovani isolani, il film affascina per uno stile registico coerentemente nevrotico e disordinato. Punti di vista insoliti e montaggio frenetico restituiscono l’elettricità negativa che permea la storia, con ambienti e atmfosfere curati ben più di una storia fragile e scarsamente approfondità e personaggi caratterizzati più dai visi ed espressioni dei tre sorprendenti non attori protagonisti che non da un soggetto eccessivamente lineare. La Malloy però ha talento, idee e personalità, e la giovane età e l’esperienza danno la sensazione che sia opportuno tenerla d’occhio.

L’egiziano Baad El Mawkeaa si porta dietro un carico d’interesse non da poco, essendo tra i primi esempi di cinema di finzione radicato profondamente nelle vicende della recente rivoluzione egiziana. Reem è una pubblicitaria, donna indipendente e progressista, tanto da sembrare per modi e aspetto più europea che egiziana. Incontra per caso Mahmoud, un allevatore di cavalli che ha partecipato alla “Battaglia dei cammelli” in piazza Tahrir, in cui uomini a cavallo seguaci di Mubarack attaccarono i manifestanti. Emarginato e deriso, Mahmoud è personaggio solo apparentemente sempliciotto e superficiale. L’incontro tra i due all’insegna della passione porta Reem a scoprire un mondo a lei sconosciuto, dominato da fraintendimenti, legato a doppio filo alle contraddizioni del paese e della rivoluzione stessa. L’opera soffre enormemente della stringente attualità e, pur volendo utilizzare le armi del cinema e del racconto di finzione per indagare ed esplorare le dinamiche sociali in atto, finisce solo per mettere continuamente in bocca ai personaggi proclami e punti di vista, trasformando il tutto in un, seppur equilibrato, manifesto del cambiamento. Personaggi interessanti su carta vengono scarsamente approfonditi ed interagiscono tra loro con dinamiche sbrigative e incomprensibile facilità. Un vero peccato e il segnale di quanto il cinema abbia sempre e comunque bisogno di raccontare storie di singoli in un contesto globale per poter comprendere a fondo quest’ultimo.

Pochi commenti possono restituire l’entusiasmo e la fascinazione che è in grado di generare la folle opera dell’ungherese György Pálfi. Final Cut: Ladies & Getleman è il mash-up filmico definitivo o quantomeno la testimonianza di quanto il suddetto approccio possa riservare sorprese e potenzialità assolute. Immaginate una storia d’amore raccontata utilizzando spezzoni di centinaia di film, tra i più amati della storia del cinema, una storia vera, fatta di gesti, momenti e soprattutto emozioni, ebbene questo è lo strardinario lavoro prodotto da Béla Tarr. Indescrivibile e commovente, il cinema del cinema, semplicemente geniale.

Conclusione di giornata con il dimenticabile eppure onesto progetto di animazione belga che va sotto il nome di Coulour de peau: miel. Diretto dal belga Laurent Boileau e illustrato dal coreano Jung, altro non è che la biografia di quest’ultimo, bimbo coreano adottato da famiglia belga. Storia commovente ma didascalica, animata con garbo e stile. Un tratto forte e deciso misto a dettagli accennati e una leggerezza generale di grande impatto offrono una interessante quanto naturale fusione della solida tradizione dell’illustrazione belga con le peculiarità dell’animazione coreana.

In mattinata a dire il vero si è visto, ma lo si vorrebbe aver rimosso, anche Sun Don’t Shine dell’americana Amy Seimetz e il meglio che si può dire è che Malick e Casavettes andrebbero lasciati in pace. Film assolutamente indifendibile in cui si salva solo la magnifica apparizione animata del titolo.

Domani è un altro giorno e si spera migliore.


Si comincia invero come peggio non si potrebbe, rimpiangendo perfino quel Sun Don’t Shine disprezzato il giorno prima.

Inutile giraci intorno cercando un modo sobrio per dirlo. Pavilion di Tim Sutton è il peggior film visto in questo festival. Risulta persino difficile definirlo brutto o mal fatto, perché tutto ciò presupporrebbe un’identità, un’idea, un percorso narrativo, magari sbagliati ma presenti. Invece no, Pavilion è opera grandemente inutile perché inconsistente. Storia di teenager dell’America di provincia che bivaccano tra skate, BMX e qualche tuffo nel lago, parole poche e poco interessanti, sguardi e gesti di sconcertante vuotezza. A peggiorare il tutto un’estetica e un girato che tentano la carta del distacco e dello sguardo esterno senza cogliere mai nel segno. Difficile immaginare una peggior vanificazione dello spirito cassavettiano e del senso di libertà e identità insiti nell’andare in skate o in bici per molti ragazzi americani. Indifendibile e urticante.

A proposito di L’etoule du jour si potrebbe direche non nel solo Leos Carax vive un certo approccio onirico e surreale del cinema francese. Sophie Blondy crea un prevedibile dramma permeato di malinconia e decadenza. Prevedibile, certo, ma non per questo meno efficace. L’ambientazione circense è il terreno ideale per echi felliniani e rimandi metaforici alla teatralità del cinema e della vita stessa. Iggy Pop coscienza di un Denis Lavant pagliaccio malinconico farebbero pensare al capolavoro che non è perché stancante e di emotività data per scontata e accennata. Un peccato, dato lo stile impeccabile e i momenti onirici in riva al mare di grande impatto. Opera vitale, comunque, sebbene non molto personale, permeata però da un attitudine da cinema degli albori che affascina e farebbe assai bene alla contemporaneità.

Quando ci sono di mezzo i Monty Python tutto fa brodo e se anche A Liar’s Autobiography – The Untrue Story of Monty Python’s Graham Chapman non è il loro nuovo film, averli quasi tutti riuniti e veder narrate le fintevere gesta di quello che fu probabilmente il più folle e maledetto tra di loro, emoziona e colpisce. Esperimento di animazione multipla e differenziata, il film racconta e inventa episodi di nonsense assoluto e anarchica comicità british. Non certo indimenticabile ma operazione nel suo complesso stimabilissima.

In serata arriva uno dei film più attesi da chi scrive e non solo: Shadow Dancer. L’attesa era tanta per il ritorno alla fiction cinematografica di uno dei più apprezzati documentaristi degli ultimi anni, quel James Marsh autore dell’incantevole Man on Wire e del sorprendente Project Nim. Capace come pochi di immergere lo spettatore nelle storie, al punto tale da far dimenticare di assistere a un opera documentaria, Marsh imbastisce un thriller politico con l’IRA da un lato e i servizi segreti inglesi dall’altro, nel mezzo una donna con sensi di colpa, personalità non strutturata e un forte amore per il figlio a sorreggerla. Parte lento e attento, prendendosi tutto il tempo necessario, indugia su visi e piccoli gesti, costruisce un atmosfera e delinea psicologie. Un dramma dà inizio a tutto e la ferita aperta conseguente lambisce tutto il film donandogli una perenne aura dolente. Purtroppo si risolve tutto qui, nel preparare magnificamente una salita di tono e un accumulo di tensione che semplicemente non ci sono e il dispiegarsi di una storia che non decolla mai, accennando personaggi stereotipati neanche poi sufficentemente delineati. Un soggetto anonimo e sostanzialmente mal scritto vanificano il chiaro intento di offrire una personale e autoriale via al thriller politicospionistico. Una via che non trova sbocco, smarrita come è sugli stessi sentieri che invece rendevano i documentari di Marsh così unici. Senza dubbio la più grande delusione di questo festival.

Indecisi se porre fine qui al nostro festival o recuperare qualche film smarrito il giorno successivo, un fortissimo raffreddore decide per noi, dunque come ogni buon film arrivano i titoli di coda su di un festival eccellente e su cui si tornerà in sede di commento, ma questa è un altra storia.

The End

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