“Se ti abbraccio non aver paura”: a tu per tu con Fulvio Ervas
di Chiara Fratantonio / 12 dicembre 2012
Un amore senza limiti e senza confini, quello che racconta Fulvio Ervas in Se ti abbraccio non aver paura: un libro bellissimo, che doveva essere stampato in sole cento copie e che invece è diventato un best seller.
Abbiamo chiacchierato con l’autore di questa bella storia e di molto altro a Più libri più liberi.
La storia di Se ti abbraccio non aver paura è una storia vera. È la storia di Franco e Andrea, un padre e un figlio malato di autismo, e di un viaggio in America organizzato e portato avanti con grande coraggio. Che cosa l’ha spinta ad accettare di raccontare la loro avventura? E, soprattutto, a farlo in prima persona?
Non ci conoscevamo. Questo libro può sembrare un omaggio a un amico, a un rapporto padre-figlio che conoscevo, e invece non è andata così. Io e Franco abitiamo in paesi differenti, abbiamo reti umane differenti. Accade che, nel luglio 2010, Franco fa questo viaggio; torna a settembre inoltrato, ha la sensazione di aver fatto una cosa molto importante e decide di raccontare questa esperienza di viaggio ai parenti e ai genitori dei ragazzi che vanno a scuola con Andrea. L’obiettivo, all’inizio, era quello di far capire alle persone più vicine che Andrea non era un pazzerello, non era un ragazzino sciocco e che anzi con lui si potevano fare cose molto belle. Cercava uno scrittore. Un suo amico ci mette in contatto e io, molto curioso, vado là ad ascoltarlo.
Inizialmente non mi colpì molto, mi fece vedere delle foto del viaggio e in quelle foto io vidi due persone normali e temevo volessero un racconto della vacanzina con due frasi belle. Poi vidi Andrea, in questo bar dove eravamo, e fu lui a colpirmi, a coinvolgermi emotivamente: lo guardai e vidi il suo mondo, come se fosse su un ottovolante. Solo allora dissi a Franco, ai tempi ci davamo ancora del lei,«Sì, la ascolterò».
E per undici mesi l’ho ascoltato; tutti i venerdì ero libero dal mio lavoro (sono un insegnante) e lui veniva a casa mia. E per undici mesi l’ho ascoltato, ho raccolto questo diario e poi con calma e in un altro anno ne ho fatto un romanzo.
Ieri, nella presentazione del suo libro a Più libri Più liberi, ha usato un’espressione molto bella: ha detto di essere diventato il “padre narrativoˮ di Andrea e di aver dovuto prestare molta attenzione soprattutto al suo modo di comunicare. Le persone autistiche hanno un modo di comunicare molto particolare, tutto loro. Com’è stato trasferire nel romanzo questo linguaggio e farlo arrivare al lettore attraverso uno strumento, mi permetta il termine, “normaleˮ, come la scrittura?
Siamo nell’epoca dei telefonini e della comunicazione facilitata al massimo. Nelle persone affette da autismo la relazione comunicativa è invece la prima sfida perché è la prima cosa che si inceppa. Ed è una sfida assoluta, in ogni istante. Con Andrea i tempi della comunicazione a cui siamo abituati erano sfasati; a volte improvvisavo, a volte non capivo. Tentavo, ma i codici di comunicazione erano completamente differenti. Il mio sforzo è stato quello di farlo essere comunque presente nel romanzo. Lui fisicamente è molto presente perché ha una grande fisicità, però un romanzo vive di parole, di un “esserciˮ in maniera un po’ più forte, e allora ho usato tutte le poche parole che lui usa e che ho ritrovato nei suoi scritti realizzati con la comunicazione facilitata che il padre mi aveva fornito e che risalivano anche a periodi precedenti il viaggio. Ho selezionato i pezzi migliori e li ho contestualizzati, li ho inseriti nel posto giusto, come si fa in ogni narrazione.
A questi ho aggiunto le poche frasi che Andrea riesce a dire. Se sei bravo a comporre la domanda, Andrea usa un pezzo della domanda per risponderti: «Com’è la giornata oggi?» «Giornata bella». Ma se gli chiedi: «Di venerdì cosa ti piace fare?», lui ti guarda e un po’ annaspa. Senza che gli chiedessi nulla, diceva spesso: «Un po’ sì», anche a sproposito; «Stare in pace», che ha imparato a dire quando vede persone agitate o quando è lui stesso ad agitarli, e «Bello». Attribuisce «bello» a tutte le cose ed è una cosa veramente potente se a dirlo è una ragazzo che ha mezze gambe nella palude dell’autismo. Ho cercato di usare queste tre frasi e di inserirle in un contesto, facendomi aiutare anche da Franco. Gli chiedevo «Ma quand’è che Andrea potrebbe dire “un po’ sìˮ?», e gli ritagliavo, nel racconto di ogni giornata, una sua finestra, un suo spazio.
È stato molto faticoso, ci ho dovuto lavorare.
Mi permetto di fare una domanda al Fulvio insegnante. In Follia docente ci parla del mondo della scuola, dell’“Impero della Pubblica Istruzioneˮ. Quali sono le nuove difficoltà che un insegnante incontra oggi nel rapportarsi con i propri alunni?
La scuola è un sistema complesso. Ogni tanto dimentichiamo che ottocentomila e più docenti e otto milioni di studenti rappresentano un sistema complesso che oggi vive molte difficoltà per diversi motivi: alcuni riguardano la situazione economica e i tagli che fa il governo, altri invece sono insiti in una generazione che è di per sé complicata. Gli insegnanti italiani hanno in media più di cinquant’anni, sono più vecchi degli insegnanti del resto d’Europa e si trovano, anche qui, ad affrontare un problema di comunicazione perché non hanno lo stesso linguaggio dei loro alunni.
I ragazzi sono educati a leggere poco o a leggere cose molto diverse da quelle che leggiamo noi; la loro formazione è soprattutto visiva, sintetica e avviene in gran parte attraverso il computer. Mentre noi insegnanti siamo ancora lì a parlare, a farli scrivere, a combattere come poveri disgraziati per avere la loro attenzione, ed è molto più difficile anche solo rispetto a quattro o cinque anni fa. Devi inventarti delle sceneggiate, devi diventare “attore dell’Impero della Pubblica Istruzioneˮ.
La società educa la nuova generazione a modelli mentali velocissimi e visivi, mentre la scuola è in parte ancora analogica, fatta di gesti, di parole. Insegnante e studente rischiano per questo di isolarsi reciprocamente, rischiano l’“autismo socialeˮ. Bisognerebbe lavorare su questo perché la scuola è un’opportunità gigantesca e l’investimento educativo è un investimento sociale collettivo che quando funziona ha una valenza stratosferica. La scuola ce la invidiano gli extraterrestri.
C’è un episodio o un personaggio, tra i tanti che racconta e descrive nei suoi romanzi, a cui è legato in modo particolare? E perché?
Un episodio che mi è molto piaciuto è quello di un libro nato da un viaggio che ho fatto in Portogallo con mia sorella. In Portogallo mi è successa una cosa: arriviamo a Cabo da Roca, che è la parte più occidentale del continente, e lì, come poche volte nella mia vita, ho avuto la percezione del limite, la sensazione di essere arrivato. Lì, fermo davanti all’oceano, ho capito la finitezza; non quella della morte, ma quella delle cose che viviamo, che finiscono e non puoi farci niente ed è comunque bello così perché è bello essere arrivati, aver attraversato e aver vissuto.
Partendo da questa sensazione un po’ malinconica e un po’ romantica ho scritto Succulente, che è la storia di un uomo che viene ucciso per sbaglio; il narratore gli concede di indagare sul perché è morto e lui scopre che è stata, banalmente, colpa del caso. Grazie alla scoperta dell’essere morto per caso, e forse si muore quasi sempre per caso, lui riattraversa una serie di relazioni che ha avuto e luoghi bellissimi che ha già vissuto, ma che rivive con una nuova sensibilità. Uno in particolare è la serra delle piante grasse di Lisbona, che è un posto spettacolare. Se uno crede che esista un dio deve andare lì. Lui lì vede la bellezza e percepisce la forza delle piante grasse, le Succulente appunto, che è quella di adattarsi comunque ed è un po’ quello che dovremmo fare anche noi. Anche quando va malissimo, con un po’ di energie ci si può adattare, si può andare oltre.
Mi è piaciuto raccontarlo. Mi pare che esprima come io viva la vita. Sono convinto che voliamo tutti basso, che la vita è un bellissimo salire e scendere: quello che possiamo fare in questo salire e scendere è godercelo e non lasciare il posto più sporco di come lo abbiamo trovato. Se riesci a fare questo e a capire questo vivi bene. Se non ci riesci ti affoghi, ma si può provare. E io sarei per provare.
Un libro che ama e uno che invece non è mai riuscito a finire?
I libri che non finisco sono tantissimi. Non è una mancanza di rispetto, ma sono dell’opinione che la vita è breve e da ogni libro che leggo voglio imparare il più possibile quindi quando vedo che un libro non mi insegna nulla passo a un altro libro.
Per questo leggo pochi romanzi e molti saggi scientifici. In questo periodo sto leggendo libri di chimica: sto leggendo Il cucchiaino scomparso, prima avevo letto Favole periodiche.
Un romanzo che ho letto da poco e che mi è molto piaciuto è Nelle foreste siberiane di Sylvain Tesson, edito da Sellerio. Parla di un uomo che va in Siberia sul lago Bajkal ed è un libro sulla solitudine, quella positiva, che si sperimenta quando vuoi stare con te stesso perché hai molto da dirti. E scopri, come solo in solitudine puoi fare, se ti ami o meno.
Ha uno sfondo naturale ruvido, bellissimo, silenzioso e c’è un uomo che va lì con poche cose e riesce a stare bene. Stare da soli è difficile quando non hai nessun rapporto con te, quando hai un buon rapporto con te da solo stai bene.
Nel ringraziarla per la disponibilità e per la cortesia, un’ultima domanda sui progetti per il futuro. Qualcosa bolle in pentola?
Questo è un periodo intensissimo, sono sette mesi che giriamo l’Italia, io e Franco. Siamo contenti, siamo stravolti. Era un successo che non ci aspettavamo, perché non è di quei successi creati artificialmente con un investimento. Franco voleva stampare cento copie; sono stato io a realizzare che questa storia bellissima doveva essere raccontata a tutti i genitori, non solo a quelli che conoscono Andrea o che hanno ragazzi disabili, e alla gente che ama la vita, che ama la sfida.
Sto cercando molto faticosamente di lavorare a un altro giallo; torno al mio ispettore Stucky, che attualmente è in Dalmazia in un campeggio naturista. Sto scrivendo anche un altro libro su un gruppo di ragazzini che cerca di rubare il posto a degli anziani in una bellissima villa con un bellissimo giardino. Sarà un conflitto generazionale tra giovani e anziani e sarà metafora di una vita ormai consumata che non sempre lascia spazio alla vita che invece preme. Una cosa che non riusciamo a governare che diventa realtà in uno scontro spesso inutile e spesso sanguinoso, stupido. Sarà un libro contro la stupidità, spero. Se riesco a finirlo (sorride, ndr).
Buona fortuna allora e grazie ancora da Flanerí.
(Fulvio Ervas, Se ti abbraccio non aver paura, Marcos y Marcos, 2012, pp. 319, euro17)
Andrea Antonello ha anche un sito internet, dove i genitori raccolgono i suoi pensieri e le sue creazioni artistiche. Lo trovate a questo link: http://www.andreaantonello.it/
Vi consigliamo inoltre la visione di questo documentario fotografico sul viaggio in America di Franco e Andrea, che contiene anche alcune citazioni dal libro di Fulvio Ervas.
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