“La cosmonauta” di Jo Lendle

di / 5 marzo 2013

Comincia il conto alla rovescia. Comincia dall’alto, dai numeri doppi, per arrivare ancora più su.

Per azzerare lo scarto e mordere il vuoto. Basta un attimo a scrivere il salto, buttando il piede al di là della linea.  Ma dietro quell’attimo si stagliano altri conteggi, sfilate, palazzi di cifre arrampicate oltre il cielo.

C’è sempre un intero paesaggio di cose che ci porta a scegliere, a partire. A condensare tutto quanto nello spasmo di un niente. A separarci da un pezzo di vita come se lo partorissimo noi stessi. Ed è proprio uno stacco da terra il senso del primo romanzo di Jo Lendle, La cosmonauta (Keller, 2013).

Il nucleo racconta di Hella, giovane donna che si ritrova presto madre e che ancora più prematuramente rimane senza il suo frutto. Perde Tobi una sera tra le altre, mentre è immersa nella vasca a stemperare l’influenza. Il telefono strepita e in quel momento lei gli ha già detto addio. Anche se non lo sa.

Tobi partecipa a una manifestazione, ma quella protesta gli costerà troppo. Gli costerà il viaggio più ambito, quello verso la luna. Non c’era nulla che anelasse di più, tanto da riempirle la stanza di lampadine disposte come la volta celeste. E allora sarà a Hella a muoversi per lui. Partecipando alla prima spedizione aperta al pubblico. Non sarà facile, non può esserlo, anche se una porzione di sé è sempre stata sospesa, si è sempre sentita galleggiare sugli sguardi della gente, come quando era ragazzina e le sembrava che il suo spirito «levitasse sotto la soffitta». Il tragitto nasce nel cuore di Tobi, nel vaso stesso dei suoi brividi, e non appena lui muore s’insinua come un seme nel petto di sua madre, con la consapevolezza che il loro sangue e il loro amore fossero i degni eredi di quel volo.

Hella si mette in macchina in direzione Asia Centrale, attraversa vari luoghi, steppe larghe come silenzi dilatati, per raggiungere un non-luogo, un’anticamera del passo più grande.

E quell’odissea prima di essere spaziale è enormemente terrestre. È metafora di una perdita e di un risveglio. Hella si sposta dentro se stessa, nelle geografie deserte della sua malinconia, in quella solitudine che è un crepaccio sempre aperto, un grido ammutolito.

Compie azioni semplici, costellazioni di piccoli gesti e minimi incontri, percorre a ritroso il suo sentiero e poi sbarca alla base spaziale. E lì ad aspettarla c’è qualcosa di più. C’è un viso diverso, un altro nome da imparare. C’è l’esatto punto di snodo tra il suo passato e i giorni nuovi. C’è quello che Hella non può prevedere, più impegnativo, forse, di una missione interstellare. C’è lo sforzo che ogni incontro, che ogni nuova avventura chiede senza sconti a chiunque voglia gettarsi.

Desiderare ha un peso. Il peso dei nostri corpi e di quelli in cui impattiamo, che siano pianeti oppure respiri. Il peso di un progetto, che qui permea tutto il romanzo fino a formare una scia.

Trama onirica, molto più poetica della sua stessa scrittura, garbata, a tratti antica, che a volte si addentra in descrizioni troppo lunghe. Non intaccando comunque la magia di un dono.

Avvicinandoci a un punto senza atmosfera né gravità e dimostrandoci come qualunque posto conservi i nostri sogni possa chiamarsi “casa”.

(Jo Lendle, La cosmonauta, trad. di Franco Filice, Keller, 2013, pp. 184, euro)

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