“Oh…” di Philippe Djian

di / 3 aprile 2013

In un romanzo che ha il merito di scaraventare il lettore subito nella vita – fatti, pensieri, emozioni – della sua protagonista, se c’è una cosa che in avvio lascia perplessi è il motivo che sembrerebbe il punto focale – e drammatico – di tutta la storia. Capita che nel romanzo di Philippe Djian, “Oh…” (Voland, 2013), una produttrice cinematografica (colta, capace; si presume: ancora attraente) al centro – proprio il caso di dire – della scena, venga violentata da uno sconosciuto. Michèle, donna dalla vita privata agitata da una serie impressionante di sconfitte e fallimenti, sembra assorbire il colpo senza isterie: né le passa minimamente per la testa di chiamare la polizia. Non che non ne sia turbata, ma il fatto è presentato in una sintassi (non solo letterale) di esistenza quotidiana che sembra non fare distinzioni fra un avvenimento – violenza compresa – e l’altro (che si tratti di vita professionale o privata).

Il paesaggio umano che la circonda è presto detto. Un padre violento che è stato un incubo per anni, una madre sciroccata e residuale (nonché un peso economico, visto che ora le tocca mantenerla), un ex marito frustrato dagli insuccessi artistici e poi tradito con l’uomo della migliore amica, un figlio incomprensibile intenzionato a sposare una ragazza molto in carne che aspetta un bambino da un altro tizio. Con tutto il carico di cinismo, di vita vissuta e caricata sulle spalle, non è semplice credere al cimento freddo con cui all’inizio la donna racconta dello stupro – quasi una parentesi in tutto il resto («una perfetta maschera da stronza», la definisce l’ex marito). Presto però si comprende come sia proprio questa la sfida del narratore: quella (simulata? apparente?) indifferenziazione del materiale narrativo. Djian in tutto il libro non inserisce uno spazio, un salto non di capitoli ma persino di paragrafi fra un’azione e l’altra (comprese le storie in flashback): un continuum che è come un blob (ma dal montaggio discreto e vischioso) in cui è invischiata l’intera vita (esteriore e psichica) della donna.

Tuttavia, intorno all’iniziale strappo di verosimiglianza, all’assenza di uno scarto di tono quando, ragionando sulla sua storia e sul presente, la voce narrante informa il lettore dello stupro (tralasciamo l’annosa e irrisolvibile questione di quanto uno scrittore uomo possa essere capace di “entrare” nella sensibilità di una donna simulandone la voce narrante), Djian costruisce un tessuto magistrale di fatti e rapporti umani che mettono a nudo il cuore della donna: il microcosmo di relazioni, di sentimenti quando non ostili, ambigui, è detto dalla specola di uno sguardo implacabile (una certa somiglianza con Michel Houellebecq appare evidente). Che non salva niente e nessuno, pur avendo un sapore di verità molto umana – o, se si vuole, di un’umanità molto vera. Di una cultura occidentale che sembra giunta al limite delle sue capacità emotive.

Sfida vinta, dunque, e non potrebbe essere altrimenti, per virtù di scrittura. Djian, parigino disincantato assai, lo dice con voce chiara: ciò che conta è la lingua, la scrittura (la traduzione è del bravo Daniele Petruccioli). E le storie non sono niente. Finalmente.

(Philippe Djian, “Oh…”, trad. di Daniele Petruccioli, Voland, 2013, pp. 175, euro 16)

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