“Il peccato” di Zachar Prilepin

di / 18 aprile 2013

«Eravamo senza cuore. La felicità è leggera – più sei felice, più sei leggero. Il cuore, invece, pesa. Ne facevo a meno. E anche lei. Eravamo due esseri senza cuore».

Così esordisce il narratore protagonista del romanzo Il peccato di Zachar Prilepin, pubblicato da Voland sul finire del 2012.

Vorrei partire proprio dalla copertina che mostra la metà di una mela: questo frutto è un’immagine pregnante di significato sia nella nostra società occidentale sia nel romanzo stesso in cui ricorre in più occasioni e viene morsa, gustata ora dal narratore adolescente e poi ventenne, ora dalle donne che lo frequentano: «Le comprai una mela da una vecchietta che ne aveva un cesto», e subito ci fa pensare alla mela di Biancaneve che nasconde un’insidia – dopo qualche morso si scoprirà infatti che è bacata. Oppure quando questo frutto si lega ai primi turbamenti adolescenziali: Zacharka si reca al fiume con la cugina maliziosa: «Katja aveva con sé delle mele. Sdraiati sulla riva sgranocchiavano i pomi rossi […] lanciava i torsoli rosicchiati nell’acqua/mordendo la mela soda appena colta dal ramo […] ha la sensazione che il viso di Katja assomigli a quella polpa bianca, succosa e croccante».

La mela è l’archetipo della tentazione, il frutto del peccato per antonomasia e viene associato alla disobbedienza dei progenitori nonché alla loro voglia, umanamente comprensibile, di vivere pienamente un’esistenza per conoscerne tutte le sfumature.

Il peccato, romanzo fortemente autobiografico, ripercorre le tappe essenziali della vita di un uomo, la prima cotta adolescenziale, l’amore, il matrimonio, l’amicizia, i figli, l’esperienza militare durante la guerra in Cecenia. L’opera esalta la vita, nella gioia che ci dà, nei doni che ci fa, è un inno a vivere con il cuore, con gli organi, con tutto il corpo, così come fa il protagonista: «Lui amava la vita…magari la felicità mi corresse addosso con la stessa veemente prontezza».

La felicità è inafferrabile, un istante sospeso nel fluire del tempo, ma la scrittura ne esalta la rotondità, la perfezione. La particolarità del testo risiede nelle immagini, metafore e similitudini, che sembrano attingere da un background evocato in uno degli ultimi capitoli quando il giovane Zachar s’immerge nei ricordi d’infanzia: il cortile di casa, gli alberi e gli animali che popolano una realtà campagnola di piccolo villaggio e soprattutto i colori e gli odori della natura al limitare di un bosco che vengono rielaborati e reimpiegati nella scrittura sotto forma di sinestesie: «L’ultimo fiato che avevo in gola: suonò come se avessi urtato contro una catasta di legna, e alcuni ciocchi fossero rotolati, cozzando l’uno contro l’altro». Oppure ancora, quando paragona la guancia della propria innamorata alla levigatezza di un ciottolo: «Porge al mio bacio la guancia fresca, profumata, liscia come un ciottolo, la bocca sa di erba»; i sensi si rinvigoriscono nella freschezza di accostamenti originali tra i ricordi di un passato rassicurante. La vita e anche la morte percorrono le pagine: l’importante è vivere intensamente, pienamente la propria possibilità terrena. Godere di ogni istante, di ogni attimo di piacere effimero che l’esistenza è disposta a regalare.

Ma come una scossa, la morte di alcuni personaggi richiama improvvisamente alla realtà, ricordando la fugacità di ogni piacere, di ogni sublime bellezza. Così assistiamo alla morte di Valies, un anziano attore di teatro, «un vecchio corpulento con un cuore pesante»; o ancora, attraverso il ricordo di Zachar, ripercorriamo con tremenda lucidità la tragica fine di un suo compagno di giochi, Saša: «Lunedì mattina fu ritrovato dal custode della scuola. Mani e piedi del ragazzino premevano contro la porta del frigorifero. Sul viso le sue lacrime congelate. La bocca, un quadrato con la lingua morsicata e ghiacciata, era spalancata».

Il peccato di Zachar Prilepin è un capolavoro e sembra essere in linea di successione erede della grande tradizione letteraria russa – si pensi all’immagine della lappola che compare nel testo come termine di paragone: «Ho la testa pesante, sembra una lappola bagnata, in autunno quella stessa pianta orgogliosa e tenace che ritroviamo in un romanzo di Tolstoj: evidentemente sul cespuglio era passata la ruota di un carro, e solo dopo si era rialzato […] Come se gli avessero strappato una parte del corpo, rivoltato le interiora, staccato un braccio, cavato gli occhi. Ma lui stava dritto, e non si arrendeva all’uomo».
Come in una continuità con la tradizione, Zachar descrive ancora una pianta, l’acero americano, con queste parole: «Di spezzare un ramo all’acero che cresceva in cortile non avevo voglia, e poi col cavolo lo spezzi, sottile ed elastico, puoi torcerlo per una settimana e non ottieni nulla».

Il temperamento russo emerge in tutta la sua forza, determinazione, abnegazione e resistenza quasi a voler affermare con convinzione l’orgoglio di appartenenza a un popolo, una storia, una nazione.


(Zachar Prilepin, Il peccato, trad. di Nicoletta Marcialis, Voland, 2012, pp. 240, euro 15)

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