Calipardi

«Mi ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s’io m’arrischio di confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo […] Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia».

E fa un po’ impressione, a leggersi. Perché la lettera è al Giordani (30 Aprile 1817) e il mittente è lui, certo: Giacomo Leopardi.

Ora, delle due l’una: o il compianto Califfo ha letto, come a me toccò in sorte dieci anni fa per l’ennesimo trenta, l’Epistolario, o la sensibilità dell’autore di Minuetto (sì, ma anche di Avventura con un travestito…) è la stessa di un pilastro al colonnato dei nostri lirici e pensatori.

A me prese, letteralmente, un colpo. Mi ripromisi, con l’entusiasmo del ricercatore che scova una chicca e confortato dalle competenze in nuce di linguista (fermavo colleghi a caso e frenetico, rammento, dicevo: «Ti rendi conto? In posizione marcata! In posizione marcata!») di chiederlo de visu al Califfo.

E immaginavo la risposta, al mio: «Maestro, ma lei per caso ha letto…» La pregustavo così: «E grazie al cazzo! Timpanaro ’97, no?!»

Non sarebbe potuto essere altrimenti, lo so. Ne sono certo. Ma non ho fatto in tempo. E mi secca, mi secca parecchio. Per puntiglio di studioso, forse, o punta di vanità (c’è differenza?). Non posso più dire l’avevo detto. Ma mi rimane il gusto d’essermene accorto, quello sì, io per primo. Forse, io solo. Perché non è al repertorio dei colleghi, l’opera del Califfo. E che peccato.

Sarò di parte, sarò affabulato del dolce satiro che ai miei occhi il Califfo è sempre stato, ma io ancora penso che non sia poi tanto distante dal catulliano Odi et Amo, quel magnifico altro verso-manifesto che recita semplice, e universale vale: «La mia mente si ribella a te / Il mio corpo no».


Buone seduzioni Celesti, Franco.