“Dando buca a Godot” di Stefano Bartezzaghi

di / 11 maggio 2013

«Come bambini in età prescolare, le parole giocano in continuazione, e non si stancano mai di giocare. […] Noi guardiamo i giochi delle parole, ci sentiamo coinvolti e proviamo a partecipare». Come una matrioska, la parola si apre, si incastra, tira fuori dal suo corpo qualcosa che la rimette sempre in gioco; continua a combinarsi, smontarsi, e di nuovo appare sotto i nostri occhi come prima, ma diversa da prima.

Che siate eminenti linguisti o “grandi twittatori”, non ha importanza. In Dando buca a Godot di Stefano Bartezzaghi (Einaudi, 2012) ognuno è autore delle parole che, come personaggi, non aspettano altro che farsi raccontare offrendo ogni propria angolatura. Bastano un foglio e una penna, o, se volete, lo spazio di un social network, e il potenziale di ogni singola parola viene fuori. Questo è il concetto presentato nei venti capitoli/giochi di serissima ironia con cui Stefano Bartezzaghi ci introduce nel caos delle possibilità linguistiche. Al centro di tutto c’è il bello di costruire calembour, parole a specchio e palindromi che a visualizzarli ci portano «a ridere d’ere d’ira». Scritti di proprio pugno, ma anche raccolti nell’oceano del quotidiano e dei social network, i giochi con le parole sono quanto di più naturale si possa trovare nella nostra lingua. Ogni gioco è svolto senza materiali alternativi, è economico ed è infinito come le capacità combinatorie che ogni parola promette; ma come ogni gioco ha un proprio meccanismo, delle proprie regole, e senza dubbio una storia. Non mancano infatti riferimenti a precursori illustri dei giochi con la lingua, come quel Rabelais autore di oscene contrepéterie che prendono forma spostando di posizione qualche sillaba, come in quel «la femme folle à la messe», simile al famoso «mazzo di carte» che può diventare l’altrettanto osceno «cazzo di marte». Allo stesso modo, non mancano giocatori contemporanei come Umberto Eco a dare spessore al gioco, impegnati spesso a comporre poesie e racconti in cui si celano sottili anagrammi.

Anche un nome proprio può uscire stravolto dal gioco, basta togliere un apostrofo o mischiarlo a un altro nome, magari famoso; mentre all’ambizione delle più grandi opere della letteratura universale corrispondono invece quei «less ambitious book; Libri meno ambiziosi» che giocano sul titolo «rendendolo meno pomposo e smargiasso ma lasciandolo riconoscibile» – chi non leggerebbe allora opere dalla grandezza abbordabile come «La vita usata, di Dante» o «Merendina, di Hemingway», «Quella sagoma di Gatsby», o i più semplici saggi della cultura europea come «Il Veniale di Marx», «Il Bignamino, di Diderot e D’Alambert», o «Qualche obiezione sul torto marcio, di Kant»?

Con grande cura per la ricerca nella nostra lingua viva e un’intelligente ironia, Bartezzaghi riporta ogni falso proverbio, tautogramma o incastro che si possa creare dandoci un libro che, mentre insegna come la lingua possa creare, ci chiama in causa, col risultato minimo di infiammare la nostra creatività. In Dando buca a Godot si nota come nulla sia più ambizioso della parola stessa, poiché mentre partorisce quelle idee che formiamo nella nostra mente, ne stravolge anche il senso, crea labirinti di segni pronti a risignificare, ma al tempo stesso si butta a capofitto nel gioco buffo, nel divertimento della creazione e inventa migliaia di modi al giorno per essere lingua.


(Stefano Bartezzaghi, Dando buca a Godot. Giochi insonni di personaggi in cerca di autore, Einaudi, 2012, pp. 216, euro 16)

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