“In the Flesh” di Dominic Mitchell

di / 22 maggio 2013

[Attenzione, questo articolo contiene spoiler su una serie ancora inedita in Italia]

Questa non è un’altra serie sugli zombie. Certe cose vanno messe subito in chiaro, perché sarebbe riduttivo bollare così superficialmente alcuni show meritevoli di qualcosa di più rispetto a una semplice etichetta. Ma andiamo per gradi.

In Gran Bretagna, la popolazione morta nel 2009 si è risvegliata infestando il paese e terrorizzando la popolazione. Una grande epidemia durata per anni ha trovato la sua conclusione, ma non in una sanguinosa battaglia. Il nuovo punto di vista di In the Flesh è questo: la presentazione degli zombie come soggetti affetti da «sindrome da decesso parziale», una vera e propria malattia. Dalla quale si può guarire.

In centri specializzati migliaia di pazienti si sottopongono a cure mediche e psichiatriche per arrivare a una guarigione completa e poter fare il loro rientro in società. Tra questi Kieren Walker, un giovane in attesa di riabbracciare la sua famiglia dopo la lunga separazione. Tuttavia, se è complicato riabbracciare un figlio deceduto anni prima, molto più difficile sarà il suo ritorno a casa nella cittadina di Roarton, piccolo centro abitato in cui è nata la fondazione dei volontari umani, una sorta di esercito formato da semplici cittadini durante l’epidemia, che ha combattuto gli zombie in assenza delle vere forze militari britanniche, impiegate su un terreno troppo vasto per aiutare l’intera popolazione.

In una comunità così piccola, in cui tutti conoscono tutti e in cui la lotta ai non-morti è stata un esempio per il resto del paese, l’inserimento di individui affetti dalla sindrome da decesso parziale non è ben vista. Anzi, non è vista in alcun modo. Per i cittadini la lotta non è mai finita, e così In the Flesh – più che sulla malattia stessa, sulle sue cause o sulle origini della cura – concentra i suoi sforzi sul pregiudizio nei confronti di chi ha ucciso i propri cari, ha combattuto contro i vivi e ora pretende di tornare come vittima tra i propri concittadini. Difficoltà che ricordano gli anni successivi alla fine della guerra di secessione americana, in cui un immenso paese in battaglia per anni si è trovato “costretto” a convivere sotto la stessa bandiera.

L’accento della serie si sposta quindi sulla lotta per l’integrazione, ponendo una certa attenzione sulle turbe psicologiche di tutti i protagonisti, dai dubbi di Kieren sempre più pesce fuor d’acqua costretto a nascondersi per evitare ritorsioni, alla sorella Gem, irrequieta e arruolata nell’esercito volontario, fino ad arrivare ai genitori commossi nel vedere un figlio tornare dopo il suo decesso, ma combattuti nel ricordo di quella morte che destabilizzò l’intera famiglia.

Con soli tre episodi da un’ora ciascuno e una conclusione ben delineata (seppur con diversi punti lasciati colpevolmente in sospeso che hanno fatto storcere il naso a diversi critici) la serie si pone quasi più come un lungo film da gustare a cuor leggero senza troppe aspettative. In the Flesh non sarà probabilmente il capolavoro di questa stagione televisiva, e dati gli ascolti la conferma da parte della BBC per una seconda stagione non è affatto scontata, ma è sicuramente un’alternativa più che dignitosa se siete rimasti orfani di The Walking Dead fino al prossimo autunno, oppure apprezzate una piacevole variazione su di un tema ormai fortemente inflazionato.

 

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