“In questa luce” di Daniele Del Giudice

di / 27 maggio 2013

Aveva ragione Leopardi quando diceva che la felicità consiste nell’aspettazione di essa: lo sanno bene gli appassionati lettori di Daniele Del Giudice, docente universitario e scrittore emblematico della nostra letteratura contemporanea che ha pubblicato “solo” sette opere in vent’anni. Questa volta, però, non si tratta di un altro romanzo come Lo stadio di Wimbledon e Atlante occidentale, né di racconti come quelli di Mania e Staccando l’ombra da terra. In questa luce (Einaudi, 2013) è una sorta di diario di bordo (utilizzando una metafora legata al mare di conradiana memoria) sulla scrittura, biografia intellettuale che comprende testi editi, pubblicati su riviste o scritti per conferenze, e inediti. Uno squisito pastiche letterario di temi, stili e linguaggi.

La “luce” a cui lo scrittore allude nel titolo riguarda il cambiamento subito dagli oggetti attraverso i quali comunichiamo con gli altri e definiamo, quindi, il nostro modo di essere individui pensanti. Un tempo erano di pietra, legno, ferro, e ci parlavano dell’agire diretto dell’uomo. Oggi sono fatti di luce (come la televisione, il computer, il telefonino), ci appaiono strumenti ostici e non portano più a una diretta e “fisica” comunicazione. L’azione primaria dell’uomo ora è guardare, trasformando il proprio cogito ergo sum in immagini. L’umanità sta vivendo una grande rivoluzione antropologica, forse la più potente degli ultimi tempi: la difficoltà, secondo Del Giudice, consiste nello stabilire un sentimento di appartenenza e contemporaneità con questo tempo.

E proprio quest’ultimo rientra nelle tematiche che l’autore affronta con ampi voli pindarici: dalla passione per la scrittura, alle arti, ai “libri degli altri”, fino ai linguaggi tecnici – il volo in primis, inteso come ciò che ci insegna (e che ci fa) volare con la mente o col corpo. In questo variegato panorama si scorge anche la genealogia letteraria dello scrittore (tra i tanti: Calvino, Gadda, Stevenson e, sopra tutto e tutti, l’amato Conrad).

Il saggio “Sulla traduzione” (forse uno dei più brillanti e interessanti dell’intera opera) è ricco di curiosità e citazioni su grandi autori del Novecento europeo che si sono cimentati in quello che Steiner descriveva come «l’antidoto o l’anticorpo di Babele poiché apre le lingue le une alle altre». Tra gli aneddoti imperdibili cito un Gide traduttore dalle non poche difficoltà, grande amico di Conrad; Artaud traduttore di Carroll, per non parlare delle vicissitudini intercorse per la traduzione di Queneau con Calvino, prima, e Levi, poi.

Anche nei capitoli “Televisione” e “Cinema” le riflessioni dell’autore assumono una poetica genuinità, grazie alla loro vena autobiografica: nel primo, Del Giudice non racconta la televisione dal punto di visita sociologico (cosa ha rappresentato e rappresenta tuttora nella nostra cultura), bensì come oggetto in quanto tale. Ricorda gli anni in cui la prima tv entrò in casa sua, quando era ancora bambino. Descrive lo stupore infantile, e quindi accecante, per «quella scatola quadrata, ingombrante che, solo a determinate ore del giorno, produceva immagini, cioè realtà, mentre per il resto del tempo riposava immota in se stessa, al più mostrando tanti puntini luminosi, una specie di nebbiolina sonora, oltre che visuale, foriera di chissà quali abracadabra». Nel testo sul cinema, invece, l’autore ci accompagna per mano nelle emozioni che la settima arte concedeva alla gente comune negli anni Cinquanta, con divinità sacre come Alida Valli, Grace Kelly e Katharine Hepburn; sullo sfondo, inquadrature di film come Il pianeta proibito e Tutti a casa si mescolano a immagini di un’Italia piccoloborghese. E, a proposito di paesaggi, anche le città assumono un ruolo fondamentale in questo saggio autobiografico: la descrizione di una passeggiata notturna a Venezia (città in cui Del Giudice vive) vi parrà intimista e piacevolmente malinconica, e poi Rabat, Treviso, Stavanger.

La lettura e la comprensione dei pensieri più arzigogolati e contorti di Del Giudice richiede a volte uno sforzo quasi eccessivo, anche a causa di noiosi tecnicismi e sofismi di non facile presa: piccole cadute di stile che si perdonano facilmente a uno scrittore e studioso del suo calibro.

(Daniele Del Giudice, In questa luce, Einaudi, 2013, pp. 200, euro 18,50)

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