“Il bambino scambiato” di Kenzaburō Ōe

di / 6 giugno 2013

Kenzaburō Ōe, premio Nobel per la letteratura nel 1994, torna in libreria con Il bambino scambiato (Garzanti, 2013), un romanzo che racconta una particolare cognizione del dolore, l’elaborazione di un lutto, l’amara presa di coscienza della morte, volontaria, di una persona cara e fortemente amata.

È mattino. Il sole inonda di riflessi dorati lo studio di Kogito, sprofondato in un sonno ristoratore dopo una lunga notte insonne ad ascoltare la voce di Gorō, amico fraterno e cognato, proveniente da un vecchio registratore. Chikashi, sua moglie, irrompe in quel silenzio portando con sé l’orrore di una notizia esiziale: Gorōsi è tolto la vita gettandosi dal balcone. Un gesto estremo e violento, nato non si sa da quale logica o dolore, che condurrà da quel preciso momento lo stesso Kogito a riesaminare e dissotterrare avvenimenti passati di cui lui e Gorōsi erano resi protagonisti, alla ricerca di una spiegazione che possa dargli pace. Subito cercherà le risposte tanto desiderate nell’ascolto compulsivo e metodico delle cassette registrate per lui da Gorō, in un rituale che si perpetuerà sera dopo sera, ossessivo, e che lo porterà a rinchiudersi sempre più in se stesso, in un autistico mutismo esistenziale.

L’elemento autobiografico (sempre presente nello scrittore) qui diventa assoluto e, nonostante l’utilizzo della terza persona – cosa non comune in Ōe – che vorrebbe esprimere il suo distacco dalla materia, si fa sentire con tutto il peso del dolore di cui l’animo di chi scrive è pregno. Anche il tempo narrativo, che procede a singhiozzi con continui flashbacke salti temporali, perfino da un paragrafo all’altro, sembra vivere la difficoltà dello scrittore di fare luce su un avvenimento incomprensibile come può essere il suicidio di una persona cara, apparentemente serena e professionalmente appagata. Non sarà quindi difficile riconoscere nel personaggio di Kogito, anziano scrittore di successo, lo stesso Kenzaburō, e in quello di Gorō, il regista e attore cinematografico Jûzô Itami, di cui Ōe aveva sposato la sorella (Chikashi, nel libro), morto suicida appena tre anni prima della stesura del romanzo. E, come già nel libro precedente (La vergine eterna, Garzanti, 2011), anche ne Il bambino scambiato lo scrittore avrà modo di parlare di un argomento a lui tanto caro: il confronto tra linguaggio letterario e linguaggio cinematografico. Ma, mentre La vergine eterna sembrava sottintendere che il secondo avesse una capacità maggiore, rispetto al primo, di saper cogliere e imprigionare l’attimo in un eterno poetico, qui quella convinzione appare svanita e non più sufficiente ad appagare la continua sete di ricerca dell’autore.

Come già accadeva nel romanzo precedente, anche Il bambino scambiato tratta una “rimozione”: una vicenda che da poco più che adolescenti aveva sconvolto la vita dei due protagonisti, Gorō e Kogito, segnandoli entrambi in maniera indelebile. Pare che nessuno dei due avesse mai più parlato di «quella cosa» all’altro, come se ne fossero allo stesso tempo sopraffatti e impauriti, ma anche completamente affascinati. Durante tutto il romanzo si fa continuamente riferimento a quell’avvenimento, e solo verso la fine scopriamo che da parte di entrambi esiste il desiderio di superarlo, sublimandolo attraverso l’atto poetico: un film che ne parli, sceneggiato da Kogito e diretto da Gorō. Ancora una volta lo scrittore affida al cinema e alla letteratura una valenza terapeutica, un espediente attraverso cui guarire le ferite più profonde che lacerano l’animo umano. Tuttavia, questa guarigione non avverrà mai: Gorō si toglierà la vita, e Kogito continuerà a tormentarsi fino all’ultimo, incapace di liberarsi del suo stesso pressante, melanconico e superomistico “io”.

Solo a Chikashi, moglie di Kogito e sorella di Gorō, custode della loro amicizia e del loro segreto, sarà data la possibilità di redimere entrambi. Nell’ultima parte del romanzo, quando tutto sembra ormai ineluttabile, e Kogito non ha trovato una soluzione all’estremo gesto dell’amico, Ōe sposta il punto di vista dalla parte della donna, che con un pittoresco e poetico colpo di coda trova una soluzione al dolore, lasciando dietro di sé i due uomini incapaci di andare avanti. Uno “scambio”, un changeling, che una volta aveva già tentato inconsapevolmente con la nascita del suo primo figlio, Ikari, diverrà adesso possibile attraverso la presa di coscienza di sé e di una nuova vita che puntualmente le si parerà davanti.


(Kenzaburō Ōe, Il bambino scambiato, trad. di Gianluca Coci, Garzanti, 2013, pp. 448, euro 24)

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