“Mopaya” di Douna Loup e Gabriel Nganga Nseka

di / 21 giugno 2013

Mopaya (Miraggi, 2012) è il racconto biografico di Gabriel Nganga Nseka, congolese, che ha registrato le sue parole per poi donarle a Douna Loup, giovane scrittrice svizzera e appassionata di etnologia, diventata la portavoce del racconto stesso.

Mopaya, termine che noi tradurremmo come “straniero” o “esiliato”, in lingua bantu, la lingua d’origine del protagonista, significa: «colui che porta il sé l’altrove». Sì, perché Gabriel, con il suo viaggio, è proprio questo.

Nato e vissuto fino a circa tredici anni in un piccolo villaggio del Basso Congo, Kinzadi per la precisione, rimane profondamente segnato dalla morte della mamma, avvenuta quando lui aveva solo quattro anni. Destinato a essere un bambino giudizioso, buono e intelligente, capace a scuola come nel lavoro nei campi dove aiuta il padre – creando così il suo unico legame con quella terra fatta di alberi, casupole, giallo e sole –, Gabriel sente fin da piccolo l’esigenza e il bisogno di migrare, di vedere altro, di partire per crescere, emulando i fratelli maggiori che si sono allontanati dalla casa paterna e che ora sono indipendenti. Partire dalle proprie origini, lasciare il proprio paese, è fatica e paura, è abbandonare la figura paterna, ma è anche sete, curiosità: partire è morire, ma è anche rinascere in un altro luogo che ci consegna un’altra lingua, altri colori, altre persone e affetti, altri sapori e profumi.

Il viaggio di Gabriel, qui raccontato e descritto in un alternarsi costante di presente e passato, di voce adolescente e di voce adulta, tempi di racconto e voci concatenati dal fil rouge dei ricordi, è sia un viaggio fisico che un viaggio d’iniziazione verso l’età adulta.

La meta finale è l’Europa, ma per raggiungerla occorre attraversare obbligatoriamente tutta l’Angola, in periodo in guerra, e quindi scampare miracolosamente all’arruolamento forzato. Gabriel riuscirà a passare i severi controlli con un po’ di fortuna, ma anche grazie all’aiuto della famiglia che lo ospita e che gli ha procurato un falso passaporto e il quantitativo di denaro sufficiente per ottenere il visto. Ma «Luanda la nera», l’Angola, rimarrà per sempre il suo incubo più ricorrente, il suo inferno personale.

Il mopaya, il viaggiatore, è sottoposto a pericoli costanti, nel tentativo di arrivare in un paese che, inizialmente, non lo vuole, lo respinge. Gabriel giunge infine in un piccolo paesino della Svizzera, dove vedrà per la prima volta in vita sua la neve, che con il suo candore e con il suo manto tutto fa tacere, e dove imparerà lo svizzero-tedesco, una lingua che nel suo essere «grezza e senza struttura» gli ricorda il dialetto d’origine. Si fermerà proprio lì, nella vana ed estenuante attesa di un permesso da rifugiato mai accettato dalle autorità.

Sarà solamente una donna, Renata, a salvarlo, sposandolo e permettendogli così di rimanere e diventare parte di un nuovo paese.

In realtà Gabriel, oggi infermiere in un istituto psichiatrico e papà di una bimba avuta dal secondo matrimonio, separato e risposato più volte, non riuscirà a sentirsi mai totalmente parte di quel paese, mai più si sentirà completamente a suo agio, né avrà mai più la sensazione di sentirsi a casa: «Ho perso la sensazione di appartenere al mondo».

Mopaya: nessun luogo, se non quello da cui provieni, per quanto bello, pieno d’affetto, di serenità e di aspettative potrà mai eguagliare le tue origini e coincidere perfettamente con te stesso. Il nostro comune destino è quello di portare con noi l’altrove. E forse, di costruire giorno dopo giorno il coraggio per fare ritorno a casa. Un giorno, chissà.


(Douna Loup, Gabriel Nganga Nseka, Mopaya. Colui che porta in sé l’altrove, trad. di Giuseppe Sofo, Miraggi, 2012, pp. 112, euro 12)

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