“Jack London. Vita, opere e avventura” di Daniel Dyer

di / 27 giugno 2013

«Sono nato proletario […]. Vengo da un ambiente rude, volgare, duro. Non avevo un orizzonte davanti a me».

L’autore di queste parole è Jack London. Dicono bene l’incipit di una vita che vorrà sfidare l’angustia del destino da cui sembrerebbe segnata irrimediabilmente. E lo farà, è il caso di dire, come se fosse un romanzo. Ora, che a uno scrittore – un grande narratore – capiti in sorte anche una vita straordinaria (che abbia la capacità, il talento per una tale vita) non succede spesso (sennò dove sarebbe lo straordinario? A meno di non considerare tale la fuffa mondana di Jep Gambardella, che peraltro grande scrittore non è).

Jack London, notoriamente, rientra nel novero di queste eccezioni. Dell’uomo che volle essere scrittore contro ogni avversità, che partecipò alla corsa all’oro del Klondike, che fu cronista delle guerre in Messico e in Corea, ci racconta tutto Daniel Dyer in una biografia di recente traduzione presso Mattioli 1885: Jack London. Vita, opere e avventura, che contiene anche un archivio fotografico col bel faccione rubizzo del narratore di Il richiamo della foresta.

Dyer come narratore non sembra a sua volta un gigante ma conosce bene la materia. Ce la racconta a partire dal breve periodo che, nemmeno ventenne, London trascorse in carcere con l’accusa di vagabondaggio. Non doveva essere un motivo di particolare ansia viaggiare in treno senza biglietto per il giovane che già da bambino aveva dovuto guadagnarsi da vivere e mollare la scuola. Che «sapeva difendersi con i pugni quando era necessario» e che non sa che di lì a dieci anni sarà uno scrittore fra i più noti al mondo. Vocazione che gli è chiara da subito: un gran desiderio di vivere e nello stesso tempo di raccontare quel che gli capita. La formazione è per forza di cose irregolare, gli studi frammentari anche se contrassegnati dalla sua abituale voracità. Il socialista non immune da razzismo non sarà un teorico raffinatissimo ma vola alto: sa che un uomo per definirsi tale deve mirare ad ambizioni che implichino il superamento dei bisogni elementari dello stomaco e che un lavoro dignitoso è quello che almeno li assicura. L’idealista ebbe una tale fortuna che poté permettersi un ranch gigantesco e di sognare di farne una comunità totalmente autosufficiente. Con la moglie Charmian progettò un lungo viaggio «nei mari del Sud» a bordo dello Snark, uno yacht la cui costruzione «fu quasi un disastro». Incompetenza di chi lavorò al progetto, terremoti che distrussero quanto già costruito, spese che lievitavano di continuo; ma anche l’insofferenza degli editori di Cosmopolitan, la rivista che aveva anticipato parte del denaro per l’impresa in cambio di articoli che la raccontassero, decisa a regolare i conti. Il giorno in cui finalmente lo Snark puntò per le Hawaii, il 23 aprile 1907, «faceva acqua dappertutto». Contro ogni previsione, l’imbarcazione vide Honolulu nemmeno un mese dopo. Costretto dall’inettitudine altrui, lo scrittore «ammaliato dal mare» aveva imparato a navigare egli stesso. E alle Hawaii si cimentò anche nel surf.

Lo so, sembra troppo per qualsiasi letterato che non sia Hemingway (specie se ricordiamo che i due americani furono autori di alcuni storie bellissime). Ma che ci volere fare, Jack London era proprio fatto così.


(Daniel Dyer, Jack London. Vita, opere e avventura, trad. di Franca Brea, Mattioli 1885, 2013, pp. 170, euro 19,90)

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