Arxiu Bolaño

di / 15 luglio 2013

Al contrario di come si può pensare, le cose sono andate così.
È bastato un rettangolo di carta, una porzione di pixel su un Mac, un link. È bastato prendere un aereo in due città diverse, all’alba dello stesso giorno, con la stessa destinazione.
Sapevamo molte cose, o credevamo di sapere molte cose. Forse adesso, mentre scrivo dei giorni passati a Barcellona, mi rendo conto che non sapevamo poi molto, io e Serena, e che anche se abbiamo camminato e letto e chiesto e creduto di trovare, non sappiamo niente di più di prima della partenza.
Siamo partiti perché eravamo pronti a farlo. Dire questo è dire tutto.
Quello che non posso dire è invece il fantasma che non è né qui (scrivo da una cucina di una casa nel centro di Roma), né dove lo abbiamo cercato, né dentro questo breve resoconto. È per lui che mettiamo in fila i fatti, i pezzi di carta e gli appunti, le foto sull’iPhone, le registrazioni delle voci da una lingua che appena intuiamo, le facce torbide, le molte birre calde, le storie che ascoltavamo, le nostre distrazioni.
Le riportiamo in questo resoconto nell’ordine in cui ci è sembrato che siano avvenute.


ARRIVO


Cappotto rosso, sciarpa gialla senape scovata a Qayrawān. Barcellona, Barça, mi accoglie con sole e vento. Scendo dall’autobus che collega l’aeroporto col centro della città, so di essere sulla pista giusta quando alzo gli occhi e vedo il cartello della mostra. La strada dell’ostello è introvabile, Arxiu Bolaño no. La mia valigia in pelle di capra, nuova e maleodorante, pesa, Plaça de Catalunya è luminosa e brulicante, io sorrido e gli uomini mi guardano, è tutto un vorticare di sguardi, e capisco proprio di non essere a Milano. Anche gli occhi di Bolaño stanno guardando me, dietro lenti tonde e un filo di fumo. Io sono arrivata per cercare lui, lui si appoggia all’angolo di una strada e non mi stacca gli occhi di dosso.
Guardo l’orologio che non ho, guardo il cielo, aspetto un uomo che arriva da Roma, di lui so solo che abbiamo una ricerca in comune, ma so anche che in due si è più forti, in due le avventure vengono meglio, Huckleberry Finn e Tom Sawyer, Arturo Belano e Ulises Lima. Una signora si avvicina, chiede spiccioli. Un viaggiatore che ho amato mi ha insegnato che i poveri sono spiriti della strada, che vanno onorati, che devono essere rispettati con monete sonanti per non incorrere in sventure indicibili. Filippo scende dall’autobus con la faccia di chi non dorme da giorni.


Serena mi aspetta a piazza di Catalunya. Sul pullman che collega l’aeroporto con il centro di Barcellona rileggo qualche pagina di Anversa. L’ho comprato a Milano, la settimana prima della partenza, alla libreria Gogol al Giambellino, un sabato mattina che camminavo e che mi ero lasciato alle spalle, dentro una camera d’albergo, una ragazza magra e bianchissima e piena di lividi, che voleva scopare senza preservativo e con la quale ero stato a un concerto.
Ci ero andato apposta a Milano per vederla. Avevo perso tempo.
Anversa è l’unico libro di Bolaño che mi sono portato dietro, l’ultimo che ho comprato. Il primo che l’autore cileno ha scritto e l’ultimo che gli è stato pubblicato. Anversa è per me un collasso spazio temporale.
Eppure questo non ha niente a che vedere con Barcellona e con il fatto che il pullman va verso piazza di Catalunya e che guardare fuori è impossibile perché i vetri sono oscurati per il sole.
Serena mi aspetta al capolinea. Scendo e c’è una luce intensa e l’aria è pungente. Serena ha un cappotto rosso e un cappello bianco e nero con una tesa piccola. Ha il naso etrusco sopra un sorriso che sa di “bischerata”. La descrivo perché ho bisogno di ricordarmela visto che la nostra amicizia è recente e ci siamo più scritti che visti. Ha il naso etrusco, dicevo, come anche un suo amico, storico dell’arte, le conferma per messaggio, un naso italico, anche se lei insiste nel dire che ha i tratti orientali.
Nessuno dei due, neppure Serena che è arrivata prima di me da Milano, crede di essere a Barcellona. Ce lo confermiamo a vicenda. Compriamo un quotidiano che non leggiamo neppure, nessuno di noi due conosce il catalano né lo spagnolo, e ci infiliamo subito in un caffè.


LA MOSTRA


Un caffè a testa, un panino a testa, una spremuta d’arancia a saldare un patto. In libreria, prima, con tutte le sue opere esposte e vorrei comprarle in massa, riempire valigia, aereo, letto, lavatrice, forno e vasca da bagno con le edizioni Anagrama. Poi il corridoio, lungo, scandisce le date delle sue opere. Chiare quelle inedite, nere le altre. Poggio la mano aperta sui nomi come dediche dell’uomo che mi ha amata e se ne è andato. Filippo è oltre, Filippo legge, cerca, io assorbo. Filippo è un bambino davanti a una radio transistor smontata.
Suoni, distorti, il buio della sala e la luce del video. Proietta immagini circolari, spirali, scale a chiocciola o almeno io le ricordo così, una voluta che assorbe i pensieri e restituisce la musica di parole in una lingua che non comprendo. Una poesia del ’75 dietro una teca, mai letta, mi colpisce che due giorni dopo tornerò ancora per trascriverla sul mio taccuino. È la prima opera che apre la mostra, è la prima e vorrei mangiarmela. I passi, io e Filippo ci perdiamo. Io apro cassetti e metto in tasca appunti e gioielli. Intravedo Filippo chino su una pagina di Amberes. Le lettere di Parra, le foto di Roberto con un cardigan bianco, occhiali tondi, al mare. Sembra autunno. Forse quelle foto gliele ho scattate io quando trent’anni fa ci siamo incontrati a Barcellona, prima dei due figli, prima della sua malattia, prima del successo. Sabbia e vento e camminare e camminare. Mi sveglio dal sogno di questa mostra, il filo razionale lo tiene Filippo, la realtà riemerge nelle parole che scambiamo, esaltati dagli appunti di Bolaño, delle due colonne: su quella di sinistra i nomi dei personaggi dei Detectives salvajes, su quella di destra gli amici; parole scritte a mano, incolonnate con attenzione viscerale, nessuna linea a cancellare, lo dirà Porta, la sera al convegno, lo dirà Heralde il giorno dopo: Bolaño teneva tutto in testa, ordinava i pezzi del puzzle nella sua mente, li montava. Se ne mancava uno, chiamava l’editore nel cuore della notte e lo cercavano assieme. Foto, scatti, macchine da scrivere, computer arcaici. La mostra è un continuum con il convegno, con la nostra stanchezza, con l’esaltazione mia e di Filippo. Abbiamo la febbre e sappiamo di avere trovato qualcosa.


Siamo a Barcellona per la mostra dell’archivio Bolaño e per il festival Kosmopolis, una tre giorni di incontri letterari e editoriali con una sezione speciale dedicata proprio all’autore dei Detective selvaggi e 2666.
Dopo aver guardato per un tempo lunghissimo le evoluzioni dei ragazzi con gli skate di fronte al MACBA, puntellati dai tonfi delle loro cadute, dallo stridio delle ruote e delle tavole sul marmo e sul cemento, decidiamo di andare alla mostra. Sappiamo già che non ci basterà vederla una sola volta.
All’ingresso ci sono grandi pannelli cartonati con la cronologia delle opere. La mostra è divisa in tre sezioni a seconda dei luoghi in cui Bolaño ha vissuto e scritto in Catalogna: Barcellona, Gerona e Blanes.
Non mancano le foto di Mario Santiago o forse dovremmo dire Ulises Lima, e degli anni trascorsi in Cile.
C’è il Manifesto infrarealista e ci sono le poesie giovanili. C’è il dattiloscritto di Sensini, uno dei miei racconti preferiti e forse dei suoi più belli. Ci sono le tre linee (dritta, curva, spezzata) di mare di Anversa poi riprese nei Detective selvaggi.
È solo carta, fogli scritti a mano o a macchina. Ho letto tutte queste parole tradotte nelle edizioni Sellerio e Adelphi, conosco a memoria alcune parti, riconosco i punti e gli incipit. La grafia di Bolaño è di una pulizia e precisione impressionante. Gli schemi delle opere, gli appunti, i segni, sono ordinatissimi al limite del maniacale. È un narratore paziente, un architetto meticoloso, o meglio pittore di affreschi che prima traccia il disegno complessivo e poi con il suo ritmo, la sua sintassi, la poesia mai davvero abbandonata, mette sulla pagina i personaggi e le storie. Ci sono poche correzioni, pochi tagli. Si avverte la naturalezza espressiva ma anche la riflessione costante, il lavorio a cercare la parola, a far girare le frase e l’intero periodo che esce quasi perfetto dalla testa e si trasferisce alla pagina.
Alla mostra io e Serena ci dispediamo. Ognuno ha il suo Bolaño. Il suo personalissimo Bolaño e del resto è giusto che sia così. Solo all’uscita, quando ci vediamo all’armadietto nel quale abbiamo lasciato gli zaini e i cappotti, ci scambiamo qualche parola. Mi rendo conto di essere stato tutto il tempo chino sulle teche non per il mal di schiena ma perché Serena, senza che me ne accorgessi, mi ha scattato una foto. Me la mostra sullo smartphone: si vede una massa di capelli riversa su una vetrina con dentro un dattiloscritto. Lei mi dice, mi sono commossa. Penso sia la letteratura: guardare meglio, guardare nel fondo, essere generosi con se stessi e con gli altri, ma questo non glielo dico.
Lo ha già detto la mostra e Bolaño.
A dieci anni dalla sua morte si è formato il mito. Reading, mise en espace, incontri, dibattiti sulla sua opera e sulla sua vita. Giovani e giovanissimi li affollano per ascoltare i ricordi degli amici scrittori come Antonio G. Porta, dei critici, degli editori che l’hanno conosciuto e seguito come il mitico Herralde di Anagrama.
La sera siamo stanchi per quanto abbiamo camminato. Stanchi sì, ma non così tanto da non bere qualche birra e mangiare patatas bravas prima di crollare in ostello.


BARCELLONETA


Piove. Il mio cappotto rosso e le foto scattate con la testa per aria. Filippo è nella sua musica, non lascia l’iPod, come a rincorrere un fantasma. Piove piano, ci rifugiamo nel Caffè Venus. Americano per me, americano per lui. Io scatto, lui scrive. Io adoro, una a una, tutte le persone in quella sala: la mamma bionda finlandese che accarezza la bimba piccola che mi guarda, il padre giovane e distratto; l’uomo seduto sullo sgabello senza capelli e con gli occhiali che aspetta un altro uomo che entra dalla porta e leggono assieme la guida; la coppia di ventenni che gioca con le bustine di zucchero come fosse un Tetris, come se fosse arte. Filippo scrive, chiuso su di sé. Filippo fa la bolla, forse per tenere stretto tutto quello che ha trovato a Barcellona e tutto quello che si porta da Roma. Io ho lo zaino leggero, sono tutta fuori, e rincorro sguardi, e rincorro sorrisi. Sto cercando.
Mi infilo in un negozio e trascino Filippo, ci caliamo nel gioco dei ruoli. Esco con un vestito nero con cerchi rossi e arancioni che sono buchi dove resta scoperta la pelle. Filippo sorride e il suo sorriso approva. Poi, per strada, adesso abbiamo voglia di birra. Abbiamo sempre voglia di birra. È l’ultimo pranzo, è domenica. Va da sé che dobbiamo festeggiare e si vuole festeggiare a paella, a Barcelloneta. Girano le vie e si incrociano a nostra insaputa. Le indicazioni chieste servono a sentire il suono, ancora, delle parole, ma le direzioni ce le inventiamo. Sbuchiamo davanti a Jai-Ca, e Jai-Ca è perfetto: affollato, rumoroso, fritto, birra, patate brave, polipo, niente paella ma le mie e le sue parole, i miei sogni e i suoi, io lì non piango, lo farò dopo in ostello davanti a un’ecografia di un’amica mandata per mail. Parliamo di passione, di ricerca. Io e Filippo siamo legati. È un incastro. Opposti e testardi, tenaci e passionali. Siamo capaci di partire inseguendo un’ombra, di parlare ore camminando, di litigare, urlarci addosso e di scambiarci attenzioni da fratelli. Lui che vuole la torta al cioccolato di notte, io che gli consegno a mano la cartolina, alle 2.28 del mattino, con l’addio al nostro viaggio onirico e bellissimo.


Dopo due giorni di sole, domenica piove. La pioggia placa il vento che ha sferzato la città nei giorni precedenti. È una pioggia lieve e malinconica forse perché si vede il mare. La luce è intensa mentre cerchiamo un ristorante a Barcelloneta, consigliato da alcuni amici.
Un uomo che porta a spasso un cane ci dà alcune indicazioni in inglese. Le seguiamo ma il ristorante non c’è. Forse è chiuso. Ripieghiamo su un bar molto affollato. È il tipico locale di quartiere. Sembrano conoscersi tutti, soprattutto i ragazzi che arrivano alla spicciolata e si stringono ai tavoli o al bancone.
Mangiamo il polpo e il baccalà e ci facciamo qualche birra. Il cibo è più saporito, la birra più fresca che negli altri posti in cui siamo stati. I ragazzi che ci servono più cordiali.
La sensazione che il nostro viaggio sia al termine, che di lì a poche ore, al mattino presto, dovremo riprendere l’aereo è palpabile. Ridiamo e torniamo in centro camminando su linee curve e morbide come gli ubriachi.
La domenica a Barcellona i musei sono gratuiti. Torniamo a vedere la mostra dell’archivio Bolaño, per masochismo, immagino. Io ci entro appena, ma non ce la faccio e quasi subito esco. Aspetto Serena seduto nella hall del museo. Ha trascritto delle poesie che in Italia non sono pubblicate.
Poi come se non avessimo fatto altro per tre giorni ce ne andiamo per le stradine del centro, a cercare un bar, a bere ancora e parlare di letteratura, e di persone care e di quello che ci aspetta una volta tornati a casa.

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