Elle

di / 6 dicembre 2013

Stamattina mi sono svegliata. Erano le sei. Ho bevuto un bicchiere di latte e mangiato dei biscotti. Tu eri morto. Ma io non lo sapevo. Poi sono uscita.
La luce era quella titubante delle mattine che non vogliono esplodere. Ho alzato le spalle, e pensavo: sarà una giornata sommessa, di quelle in cui non succede nulla. E infatti scivolava via tutto così, come un tempo non prezioso.
Una giornata come tante.
Invece sarebbe rimasta unica. Perché esiste un solo giorno in cui tu sei morto.
Non mi preoccupavo di niente stamattina, perché non lo sapevo. E poi l’ho saputo.
Ma come cazzo hai fatto a morire, ti ho urlato dentro, dai smettila e guarda piuttosto che giornata. Guardavo anch’io, in quella luce diventata all’improvviso preziosa. Quando ne vedrai più una così? E poi dicono che non ci sono più le stagioni. Questo cos’è se non un perfetto giorno d’autunno, che non fa né freddo né caldo, con l’odore del mare che fa esitare, e io infatti esito e ti chiamo e tu mi dici ma quale lavoro, passa a prendermi va’… E io faccio inversione, di marcia e programma.
Ci siamo appollaiati su uno scoglio, coi piedi nell’acqua e lo sguardo dritto.
E in quel tepore leggero e frizzante gli anni in più appassiscono e sbocciano di nuovo gli altri, quelli che hanno un senso d’immenso.
E poi le mail, quante, quante ne abbiamo scritte. Mi raccontavi di C. che nel mio immaginario era una donna bellissima, e forse lo era davvero, non so, non te l’ho mai chiesto, per pudore, perché la storia stava per finire. E tu avevi lo sguardo fosco, col sopracciglio alzato e la bocca amara. E quindi non potevo chiederti: e allora com’è C.? Scherzando, come facevamo sempre, anche con le cose serie, soprattutto con quelle. Che poi tu la guardavi già con un occhio solo ’sta storia qua; l’altro chissà cosa stava mettendo a fuoco.
Avevi un’aria sconsolata il pomeriggio in cui ti ho visto la prima volta.
Lo spettacolo era alla fine, sono entrata al buio. Avevo sbagliato orario e ancora non capisco come sia successo. L’avevo guardato migliaia di volte, luogo e ora. Ero partita anche con un certo anticipo.
Tu passeggiavi per la platea, come un’anima dannata; come se ti rodesse qualcosa. Scontento. Al buio. E pensavo che fosse per lo spettacolo, magari qualcosa era andato storto, e allora ho guardato l’attrice, alle battute finali, ritenendola responsabile del tuo malumore. Ma poi mi hai detto che l’attrice era bravissima e non c’entrava nulla. «Devo parlare con C.», mi hai detto alla fine dello spettacolo.
Mi sei sempre sembrato bello. Non so se gli altri se ne accorgevano.
Ma per me era così evidente… Anni dopo, quando ti ho visto di nuovo in un altro luogo e in un un’altra ora, e stavolta non ero in ritardo perché ci siamo incontrati per caso, volevo dirtelo. L. sei bello! Tu mi avresti guardata col tuo sorriso ombroso e la bellezza di quell’istante l’avrei conservata sempre. Invece ti ho detto: «Fammi una dedica va’». E così quel momento è pieno di te, chino sul foglio a sbirciarmi e a scrivere la dedica.
E solo ora mi accorgo che il nostro nome comincia con la stessa elle. Che potrebbe apparire una cosa così, e invece mi sembra importante.
Dico il tuo nome e il mio, con la stessa elle. Magnifico!
Ho sempre avuto un problema con le parole. Ricordo che da bambina mi sembrava che non dicessero nulla che avesse senso, senno, nesso. Anche se usavo quelle giuste, parole esatte. Così un giorno ho smesso di parlare.
Ma poi tutto quel silenzio… Mi è venuto il dubbio di averlo dentro.
Allora ho deciso di giocare con parole storte, squilibrate, rotte. E poi di mescolarle a quelle dritte, equilibrate, intere.
Finché ho sentito il polso.
Nonsense, limiti, confini, sfumature.
E potevo dire di pensieri storti con parole dritte, di emozioni incerte con parole ferme, e di altre cose che avevano un significato ma, di soppiatto, anche un altro. Insomma potevo nasconderci quello che volevo nelle parole, senza che nessuno se ne accorgesse.
Un giorno ti ho scritto, dopo aver letto un tuo racconto e alla fine una tua breve biografia e una raccomandazione: non mandatemi manoscritti o altro per pareri, consigli, editing. Non ho tempo.
Bene, ho pensato, se le parole non hanno solo il senso che appare…
E ti ho mandato un racconto.
La cosa incredibile L. non è che tu mi abbia risposto, non è neanche che mi abbia proposto un tema per un altro racconto e chiesto di dirti qualcosa di me. No, la cosa incredibile è che tu hai letto i pensieri nascosti nel racconto, hai sentito le mie emozioni in incognito, hai stanato il significato vero di parole travestite, truccate, camuffate. Hai svelato il mio gioco, così… come un prestigiatore incallito.
E quando ti dicevo che ti immaginavo alla scrivania a scrivere, mi rispondevi immagini bene. Mi piaceva saperti lì a scrivere, era così rassicurante.
Ecco, L., tu riuscivi a rassicurarmi, solo pensandoti.
«Sono stato poche volte sott’acqua», mi hai detto, «da ragazzo per toccare il culo alle coetanee, poi ci sono tornato per scrivere una storia…»
E ora ogni volta che vado sott’acqua, penso a te, alle tue donne, alla tue storie, a quando mi hai detto: ti sfido.
Bene, ti sfido anch’io L. Mi tuffo… Incontriamoci.


Questo racconto si è classificato secondo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare (seconda edizione), organizzato da edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí.

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