“Jim Morrison. Vita, morte e leggenda” di Stephen Davis
di Simone Schezzini / 7 dicembre 2013
Rockstar, poeta, icona sexy, bevitore incallito e ingrassato con la barba incolta, pericoloso ribelle per le autorità americane, esule a Parigi. Tutto questo è stato Jim Morrison in soli cinque anni di ribalta. Una meteora in fondo. Proprio come Janis Joplin, Jimy Hendrix e Brian Jones. Stelle che si sono spente troppo presto, a distanza di pochi mesi uno dall’altro e tutti a ventisette anni. Già, questo numero maledetto, 27. Anni dopo, molti anni dopo, nel 1994, sarà il portavoce della “generazione x”, Kurt Cobain, a morire giovane. E anche lui a ventisette anni perché, come ha lasciato scritto il giorno del suicidio, citando una canzone di Neil Young, «è meglio bruciare che spengersi lentamente». E forse, nessuno più di Jim Morrison ha spinto sull’acceleratore della vita. E si è bruciato troppo presto.
Jim Morrison. Vita, morte, leggenda di Stephen Davis (Mondadori, 2006) è l’avvincente e accurata storia di questo novello Rimbaud, simbolo della generazione ribelle degli anni Sessanta. «We want the world and we want it now», ha scritto Jim. Amante dei poeti beat, di Nietzsche così come dei film di James Dean Gioventù Bruciata e Il gigante, si iscrive alla UCLA, la prestigiosa scuola di cinema in California dove ha come compagno di studi quel Francis Ford Coppola che nel ’79 userà l’epica “The End” dei Doors per la scena iniziale del suo capolavoro sulla guerra Apocalypse Now. È la musica dei Beach Boys – in particolare i loro primi tre dischi (Surfin’Usa, Surfer Girl e Little Deuce Coupe)– a spingere Morrison verso la West Coast. Il giovane studente di cinema però non è un ragazzo come gli altri. Figlio di un militare, è costretto sin da bambino a seguire i continui spostamenti della famiglia dimostrandosi già in giovane età una persona fuori dall’ordinario, un adolescente su cui nessuno riesce a esercitare un controllo.
Jim descriverà anni dopo se stesso da ragazzo come una piaga aperta con un impulso a mandare all’aria ogni situazione. Nel tempo purtroppo questa condizione non muta e lo stesso accadrà anche alla scuola di cinema e pochi anni dopo persino con i Doors. Una band in perenne balia della psiche del suo leader. Soprattutto durante le esibizioni dal vivo. Perché Jim, fedele al motto del suo idolo Rimbaud, è sempre rimasto convinto sino alla fine dei suoi giorni che il vero poeta (e lui più che cantante rock si è sempre sentito un poeta), è colui che ruba il fuoco, colui che sconvolge continuamente i propri sensi.
Gli ultimi mesi della sua breve vita, un Morrison esausto, li passa a Parigi, lontano dalla fama, cercando la pace interiore e probabilmente anche la salvezza. Seppur lontano da Los Angeles, i demoni prendono di nuovo il sopravvento. Un giorno, nel giugno del 1971, mentre passeggia nei pressi di Montmartre, chiede all’amico che è con lui cosa sia quell’ampia collina verde che attraversa tutta la città. Si tratta di Pere-Lachaise, il grande cimitero di Parigi. Risale all’epoca di Napoleone e vi sono seppelliti illustri cittadini come Chopin, Balzac, Oscar Wilde, Edith Piaf. Jim vuole immediatamente visitarlo. Rimane così affascinato dai monumenti dei grandi artisti, dalle tombe fiorite della borghesia del XIX secolo e dallo spettrale silenzio, sebbene il cimitero si trovi in mezzo alla città, che esprime il desiderio di essere seppellito lì alla sua morte. Meno di un mese dopo, quella verde collina sarà la sua casa.
Sulla lapide è affissa una grossa targa di bronzo con l’iscrizione greca «KATA TON ΔAIMONA EAYTOY»: Fedele al suo spirito.
(Stephen Davis, Jim Morrison. Vita, morte, leggenda, trad. di R. Bertoncelli, F. Zanetti, I. Castiglione, Mondadori, 2006, pp. 565, euro 11)
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