“Memorie di un cane giallo e altri racconti” di O. Henry

di / 10 gennaio 2014

Memorie di un cane giallo e altri racconti di O. Henry, ripubblicato da Adelphi nel 2013, dopo la prima edizione nella Piccola Biblioteca Adelphi del 1980, è una raccolta di racconti con personaggi spuri, un piccolo esercito di esseri corruttibili, irregolari e fuggiaschi, al di là del bene e del male, in grado di far oscillare con delicata nonchalance i miti dell’America produttiva.

Rivendicando il più delle volte la possibilità di godersi una felicità fatta di piccoli piaceri, i personaggi pagano il rovescio del sogno americano, e quando sembrano inseguirlo, non si crucciano di rivelarne le ambiguità: il perdigiorno Soapy de “Lo sbirro e l’inno”, rifiutando la logica dalla filantropia, perché mangiare la manna statale vuol dire infliggersi l’umiliazione di spirito di gratificare le intenzioni del sistema, ambisce alla prigione, presentandosi in un ristorante dichiarando che alcun «rapporto intercorre fra la sua persona e la più trascurabile moneta»; Tildy che scambia le avances di un cliente alticcio per una dichiarazione sentimentale; il cane giallo che cita Kipling per giustificare la propria vivace biografia e i buffi coniugi del racconto “Il dono dei Magi”.

Henry coglie bene l’America animata da intraprendenza e desiderio di riscatto sociale, concentrandosi sulle preoccupazioni imposte, amate o no, le ambiguità dell’essere catturati dal sogno americano, complici di piccole truffe, e a propria volta truffati.

Attraverso modesti artifici che richiedendo la complicità disimpegnata del lettore, Henry rivela le intenzioni comiche e l’innocua caricatura delle sue pose intellettuali: «Era un giorno di marzo. Non cominciate, in nessun caso, un racconto a questo modo. Non è possibile immaginare inizio peggiore. È privo di fantasia, piatto, arido, e con tutta probabilità serve solo a menar il can per l’aia»; «Quel signore che annunciò che il mondo era un’ostrica che egli avrebbe aperto con una spada, fece più impressione di quanta non ne meritasse. Non è difficile aprire un’ostrica con una spada. Ma avete mai visto nessuno provarsi ad aprire la terrestre bivalve con l’aiuto di una macchina da scrivere? Vi aspettereste di vedergliene aprire una dozzina, e crude, a quel modo?». Nella povertà materiale dei suoi personaggi, O. Henry valorizza le atmosfere, con una lente che ingrandisce le stanze dove sono deposti strumenti musicali, si ascoltano i monologhi di megere e lo sgnaulo di un gatto, le forcine «quei discreti, impersonali amici della donna, femminili di genere, di modo infinito, di tempo indifferente». Oggetti che dimostrano l’estrazione umile di persone che ambiscono alla realizzazione borghese soffrendo per il fallimento. Spettacoli di scarpe di cuoio, di pesci, il consacrato desiderio di godersi il poco di denaro ozioso racimolato da Mark e il suo amico in miniera, una specie selvaggia galleria di personaggi tragicomici che tenta con amabile goffaggine di essere felice e fiera del proprio ozio, gaia di aver compreso il segreto per compiere piccole truffe senza rischiare di rovinarsi una credibilità.

Ciò che si rivela interessante è la solennità fittizia del linguaggio, che scivola nell’iperbole e nella leggerezza estrema, svagata, senza dare definitive conferme sulle opinioni dell’autore verso i propri personaggi, così da restare nel dubbio di aver assistito a un piccolo circo con momenti illuminanti, come il gioco di corteggiamento forzoso di due coniugi che litigano per un dollaro, ma continuano a volersi bene nel “Nuzio di primavera”.


(O. Henry, Memorie di un cane giallo e altri racconti, a cura di Giorgio Manganelli, Adelphi, 2013, pp. 406, euro 14)

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