“Splendore” di Margaret Mazzantini

di / 20 gennaio 2014

Una regola aurea del “grande romanzo d’amore” prevede che l’amore stesso sia, per prima cosa, contrastato: che la coppia d’innamorati debba fronteggiare ostacoli alti come maree, i Capuleti e i Montecchi, Don Rodrigo e la peste, la rivoluzione d’ottobre, il legittimo consorte signor Karenin… cose così. Venuti meno, nella disadorna realtà attuale, molti di questi epici ostacoli alla soddisfazione del Liebestraum, in soccorso di Margaret Mazzantini, fresca autrice di Splendore (Mondadori, 2013), deve essere venuta la grande idea: gli innamorati, stavolta, saranno dello stesso sesso, maschile.

Ma poi – per non urtare troppo le più che probabili acquirenti del romanzo? per differenziarsi da tanti Anonimi lombardi e Scuole di nudo già in circolazione? – l’autrice ha pensato bene di dotare sia l’uno che l’altro Romeo di altrettanto legittime mogliere. Giapponese (un omaggio al Mishima di Confessioni di una maschera?) l’estrosa Izumi che, chiesta in moglie precipitosamente dall’io-narrante, Guido, entro una sola mezza paginetta, gli porterà in dote una figlia di primo letto, a sua volta grondante di assonanze con adolescenti nabokoviane; romana invece, e blandamente coatta, quella del prestante deuteragonista Costantino, che ne avrà una figlia subito scomparsa dal plot, e un ragazzino subnormale fecondo di bave gocciolanti, e altrettanto commoventi stupori da innocente.

Naturalmente non è il fatto che la scintilla possa scoccare fra due persone bisessuali, che si vuol qui porre in discussione: nonostante l’autrice dimostri, con oculati riferimenti ai locali gay di Londra e agli album di Tom of Finland, di essersi diligentemente documentata, quella che si avverte è la mancanza di consapevolezza interna, se così si può dire, del personaggio. Guido non ci dice, fin dal principio, come si sente, dentro, un uomo che si accorge di provare attrazione per un altro uomo; di punto in bianco, dopo essere stato oggetto, durante una gita fra liceali, di una masturbazione da parte di Costantino, e aver giaciuto con lui (scena che brilla per la sua scrupolosa attenzione a non sbilanciarsi mai in sgradevoli dettagli) sotto una tenda in riva al mare, il giorno stesso della morte di sua madre, lo vediamo «diventare quello che è», ed entrare, per così dire, nella parte.

Raggiunge, senza altre motivazioni, il suo amico ora soldato, e consuma con lui il primo degli amplessi che, sempre badando a non scendere troppo nei particolari (al simpatico personaggio secondario di Geena, che gli chiede «chi è la donna?», Guido risponderà, lapidario: «A turno»), costelleranno via via le successive due-trecento pagine del libro, intrecciandosi a canoniche vicissitudini di decadenze fisiche, malattie infamanti, degenze ospedaliere a seguito di pestaggi omofobi, decessi per cancro e urne cinerarie affidate al Tamigi: tutto quanto, insomma, possa raccogliere la commossa partecipazione di lettrici con alle spalle esperienze di congiunti accuditi.

Ed è sempre a beneficio del suo affezionato pubblico, che l’autrice affermerà, convinta, che i maschietti di quel tipo là sono tormentati altamente dal rodìo di sapere «che il loro orgasmo non potrà mai fecondare la creatura che amano». Non è sfiorata, la Mazzantini, dal dubbio che possa essere appunto questa la molla principale di un’attrazione fra persone dello stesso sesso: il rifiuto, più o meno consapevole, più o meno conclamato, del fatto che attraverso il proprio seme si ripeta l’immotivata violenza di cui a sua volta (quale che sia, del resto, il suo orientamento sessuale) uno è stato vittima?

Di sicuro più convincenti risultano, invece, gli altri aspetti del romanzo: soprattutto la caratterizzazione delle figure femminili, la madre del protagonista chiusa nella sua svagata inaffettività, o la dolce Izumi, disegnata per abili sfumature d’ombra e di silenzio, la vulcanica Leni, con il breve idillio per il subnormale Giovanni e poi gli altri suoi strambi fidanzati, sui quali però emerge, intrepida, la sua tenerezza per l’adottivo dad, o ancora Geena, con la sua elegiaca uscita di scena, preannunciata da un sogno come nei poemi epici (o nelle confidenze delle signore al mercato), e presagio di quella scelta per sé dal protagonista dopo lo scioglimento del plot. Nettamente virato, quest’ultimo – anche per le tonalità liriche dello stile –, verso il melodramma: vero ricatto sentimentale («e se non piangi, di che pianger suoli?») che il lettore ha meritato trascinandosi fedelmente fin lì per oltre trecento pagine.

Due parole, infine, proprio sullo stile del romanzo; a parte il tornare di uno stesso aggettivo, «liquoroso», in rapporto con almeno quattro diversi referenti, le frasi sono, di preferenza, brevi, brevissime anzi, smozzicate, quasi affannose; la tensione metaforica è costante, con esiti a volte felici, altre volte meno persuasivi: frasi come «la vita era esattamente così, una lampadina sporca appesa a una fune elettrica il cui unico generatore di corrente è l’amore» sembrano capaci di far rabbrividire perfino un bigliettino dei Baci Perugina.


(Margaret Mazzantini, Splendore, Mondadori, 2013, pp. 309, euro 20)

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