“La nera fedeltà dell’ombra” di Francesco Lioce

di / 12 febbraio 2014

La qualità del poetare che Francesco Lioce mostra nella silloge La nera fedeltà dell’ombra (Perrone, 2013) è fatta d’echi. Non già di quanti giganteggiando hanno dato versi memorabili alla nostra letteratura (e bene li conosce, l’autore), quanto di sé. E qui sta il nuovo. Prorompe dai versi un sentore di vissuto, d’esperito estetico – mai confinato al salottame dei circoli vezzosi e onanistici del nostro far cultura deteriore – trasposto in parole ricercate e cerchi di frasi che sanno dal particolare (mai in u: altra dote dell’uomo generoso e dell’amico leale) universale e condiviso.

Questo volume elegante e di pregevole fattura ci accompagna addentro i non meno eleganti reportage di vita vissuta e sentita che fanno le nove stazioni di un itinerario esperienziale che lo stesso autore, e sono le prime parole che ci offre, qualifica cammino e in fieri. Pietre miliari ne sono due luoghi geografici: la natia Sicilia, terra dei Padri, e il Giappone, terra dell’amore sponsale, arcipelago delle mille alterità da scoprire e mediare alle imbolsite ovvietà dell’Occidente. Uno poi è luogo dell’anima (non a caso anch’esso reificato per lettere, nel romanzo curato dal nostro e diario altrui ma consanguineo, l’Ocean terminal di Piergiorgio Welby): la Roma della stasi imposta, dello studio superiore e dell’investigazione per amore, ancora, dei misteri del dolore, della sorte avversa e della grandezza che giganteggia a dispetto delle costrizioni di un tristo sarcofago.

Le sezioni hanno titoli criptici. Il facile non s’addice al poeta, men che meno al nostro. Tre testimoniano del pilastro fondante la nostra identità culturale: la definizione del sé maschile nell’imitazione coatta prima – «Il figlio del padre» –, la consapevole rivolta poi – «Il figlio cambiato» –, l’abbandono infine dei legaccioli di subalternità, unico vero preludio all’acquisizione della piena adultità virile – «La morte del figlio». Quante volte chi scrive ne ha discusso, della crisi del maschio e del fallo, dei tranelli della rimozione del guerreggiare, concreto e figurato, in questo Occidente fatto vile di consumi e spese per il futile cui manca persino la dignità del pegno. E che piacere ritrovarle in versi, le cadenze dei ragionari, e per parole selezionate con raffinata cura a significare per allusione, per connotazione, per eco flebile (mai dimesso!) anche quando il contesto è turpe e il dire, volutamente, disfemico.

La poesia di Francesco Lioce non teme la carne e le sue rogne. Incanto e marcescenza, levità e furor, orgoglio e vergogna oscillano tra i versi come non può e non deve mancar d’essere a vite che siano degne d’esser chiamate tali quando intenzionalmente, caparbiamente condotte fuori della Torre d’Avorio percepita, con precoce saggezza, ente patogeno più pervasivo e annichilente di ogni errore umano o fato ostile.


(Francesco Lioce, La nera fedeltà dell’ombra, prefazione di Elio Pecora, Giulio Perrone Editore, 2013, pp. 160, euro 13)

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