“Un pasto in inverno” di Hubert Mingarelli

di / 5 maggio 2014

Un giorno soltanto, un solo lunghissimo pasto, quanto basta a capire questo piccolo concentrato di emozioni perfettamente riuscito.

Edito da Nutrimenti nella collana Greenwich, Un pasto in inverno di Hubert Mingarelli (2014) è un un romanzo breve: si legge in poche ore, eppure resta, costringe a ripetere e a pensare.

Tre uomini, riservisti della Wehrmacht, addetti alle fucilazioni di massa in un campo di sterminio nazista, cercano una tregua, seppur temporanea, da quel compito oramai insopportabile, e l’unica alternativa è la caccia: stanare quei pochi ebrei scampati ai rastrellamenti e sopravvissuti al gelo polacco. I tre lasciano il campo prima dell’alba, senza mangiare, per allontanarsi il più possibile e non sentire nemmeno l’eco della prima fucilazione. Sollevati, quasi felici nonostante il freddo che «sembrava penetrasse attraverso gli occhi  e si diffondesse ovunque. Come acqua ghiacciata attraverso due buchi». Attraversano villaggi tristi come piatti di ferro mai lavati, parlando del timore paterno che il figlio di uno di loro, lasciato senza una guida, inizi a fumare. Una paura comprensibile, certo, ma forse stridente con la realtà dei fatti vissuti. Eppure è proprio quel continuo arrovellarsi su una possibile soluzione che lega i tre soldati e fa sì che si confidino i loro sogni, un  giro in tram…  Irrealizzabile e semplicissimo. Fuga dall’orrore.

Poi, quasi per caso, una fronda di alberi senza brina, troppo verde nella selva bianca, svela il covo di un ragazzo ebreo: il calore del suo respiro ha tradito l’assurdo nascondiglio, un buco sotterraneo sotto strati di neve e di vestiti.

Sulla via del ritorno scelgono una casupola abbandonata per zittire le loro pance vuote e riprendersi dal freddo implacabile. Inizia la lunga preparazione del fuoco e della zuppa di semolino italiano, tanto magica a gonfiarsi quanto lenta a diventare commestibile, fino al punto da rendere necessario il sacrificio della porta dello sgabuzzino dove hanno chiuso il giovane catturato. Immolano l’unica cosa che realmente li divide da quell’essere e li costringe a vedere. Simbolicamente efficace ad accompagnare il rito del pasto condiviso, quasi un’ultima cena, ragionando sulla possibilità di negare ancora vita o questa volta di regalarla…

Un testo scritto con uno stile semplice e diretto, eppure estremamente poetico, e davvero ben tradotto da Federica Romanò. Un eccellente connubio tra lingua e scenario. Cento pagine appena per rendere l’abominio commesso dall’uomo, di cui non si parla mai abbastanza. Guerra, sterminio, razzismo e i carnefici che diventano dei vinti, stremati e svuotati, privi di speranze come le vittime.

(Hubert Mingarelli, Un pasto in inverno, trad. di Federica Romanò, Nutrimenti, 2014, pp. 112, euro 12)

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