“La città assente” di Ricardo Piglia

di / 23 luglio 2014

«Questi libri», disse una volta Jorge Luis Borges in riferimento allo Zohar e al Séfer Yetzirah, «non sono scritti per essere capiti, sono fatti per essere interpretati, sono stimoli affinché il lettore ne prosegua il pensiero». Senza alcun timore possiamo pensare che tale concezione del libro possa estendersi, nel sentire borgesiano, non solo ai cosiddetti testi sacri, quali lo Zohar e il Séfer Yetzirah, ma anche a qualsiasi altro prodotto della parola che si adagia sulla carta. D’altronde esistono molti altri punti dell’opera di Borges in cui si rende evidente una certa disposizione a rifuggire, per quanto possibile, dall’ammorbamento coercitivo che costringe il lettore all’unica via d’interpretazione, alla correttezza della lettura, ovvero a un impossibile carattere in un modo o nell’altro oggettivabile della letteratura (e già che ci siamo della vita) che definisca la validità assoluta di un qualsiasi impianto ermeneutico a detrimento degli altri. Forse, addirittura, potremmo dire il contrario: leggere un libro per capirlo, seguendo un sentiero dritto e senza svolte, è un obiettivo più che altro tracotante, probabilmente inutile, di certo piuttosto frustrante.

Quando questa consapevolezza borgesiana trasmigra dall’ambito della lettura alla pratica della scrittura, allora scopriamo che scrittore e lettore, cioè brutalmente l’autore e il fruitore dell’opera, devono operare più o meno attraverso le medesime strategie di sopravvivenza, cosicché il confine tra i due mondi che rispettivamente li ospitano, ossia quello di chi crea un universo e quello di chi lo abita, diventa a poco a poco una linea fittizia tracciata da una mano molto arbitraria. Quei due mondi, allora, sono soltanto uno.

Analizzando il pensiero borgesiano, in «Parodia y propriedad», un’intervista del 1980 poi confluita in Crítica y ficción, Ricardo Piglia sostiene: «Borges lavora con le garanzie e i valori del sistema letterario portandoli all’irrisione, all’eccesso, all’irrisione per eccesso, bisognerebbe dire. Allo stesso tempo percepisce con nitidezza i meccanismi del sistema e li traduce nel fondamento della sua finzione». Sicché nel 1992, e veniamo a noi, quando scrive il romanzo recentemente tradotto qui in Italia La città assente (SUR, 2014), lo stesso Piglia sembra armarsi dell’irrisione e dell’eccesso, creando un libro che di certo non è fatto per essere capito in un senso unico ed esclusivo. Lì, infatti, anche in ossequio al modello borgesiano, Piglia fa confluire citazioni che diventano riscritture, sconvolgimenti frequenti del registro narrativo, una certa libertà nell’utilizzo dello spazio e nel tempo, diverse confusioni tra piani di realtà e finzione, una fertile instabilità di genere, richiami volatili alla storia grande che è stata e non e altri accorgimenti dal tono piuttosto argentino. Tanto che, per ammissione dello stesso Piglia, è anche da Borges che nasce La città assente. Il Borges dei dislocamenti, delle riarticolazioni delle riscritture e delle mistraduzioni, quello della riconfigurazione di significati in contesti altri, quello irriverente che attraverso gli stessi meccanismi del sistema letterario fonda la sua finzione. Quello che disprezza l’unica via di comprensione di un testo. Accanto a Borges, tuttavia, sono altri gli autori che assurgono al ruolo di modello nella Città assente, per esempio Macedonio Fernández, Roberto Arlt e James Joyce: altri tre autori che, come Borges e come Piglia, hanno tentato di fare della propria letteratura un vettore di resistenza e sovvertimento.

Ma sovvertimento di cosa? Sovvertimento delle regole della narrazione, prima di tutto; preludio a uno scopo più ampio: la lotta della periferia nei confronti della Metropoli (come sostiene anche Sergio Waisman, autore della prefazione all’edizione in inglese de La città assente). Perché La città assente, anche a leggere la bella prefazione di Tommaso Pincio in apertura del volume appena pubblicato, è un libro che, in linea con quanto si è fin qui detto, può essere letto seguendo numerosissime strade. Un romanzo in cui perdersi senza addomesticare la letteratura, un invito a continuare il pensiero che l’anima.

(Ricardo Piglia, La città assente, trad. di Enrico Leon, SUR, 2014, pp. 208, euro 15)

 

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