“La terra della prosa”
a cura di Andrea Cortellessa

di / 31 ottobre 2014

Sostiene Andrea Cortellessa che sia indispensabile risarcire la critica letteraria di un temperamento attivo e autonomo, rispetto al ruolo risicato di cui ha dovuto accontentarsi nel corso dell’ultimo decennio. Nel definire la critica come un processo esegetico a posteriori, Cortelessa si sbarazza pure delle tesi strutturaliste troppo ardite, organizzate attorno alla «morte dell’autore e al funzionamento del testo senza bisogno che la critica rintracci un’interpretazione trascendente», e guarda invece all’incontro fra lingua e stile, alla visione unica che l’autore rappresenta, in una prosa narrativa che accetta la contaminazione fra generi. La lettura dell’antologia La terra della prosa (L’Orma, 2014) è fortemente consigliata ai lettori interessati a confrontarsi con tali posizioni: Cortellessa sceglie un itinerario di lettura improntato alla polarità spazio e soglie, intesi in senso sia fisico sia interiore: così, il paesaggio risulta essere una categoria, a suo avviso, aggregante per molta parte della produzione narrativa del decennio zero italiano.

I criteri di selezione rifuggono la predilezione del critico, riconoscendo il primato della scrittura di qualità, evitando pure canoni ristretti, classifiche di vendita o tabelline letterarie care a Daniele Giglioli, la cui stima è confermata dalla sua forte presenza nell’apparato critico che accompagna i testi e i commenti del curatore. Chi rientra fra i trenta autori italiani analizzati, chiarisce il critico nella premessa, ha raggiunto la maturità letteraria in un decennio a torto considerato povero di qualità e, secondo alcuni, affollato di romanzieri a cui Calvino avrebbe consigliato di desistere. Sono autori che hanno assimilato lezioni importanti, come quelle gaddiana e márqueziana, si sono confrontati con la narrazione breve e il verso, specchiandosi nell’ostinazione della fabulazione e a far romanzo. La componente su cui Cortellessa sofferma lo sguardo è la vasta stratificazione linguistica della lingua italiana, che disegna confini antropologici e geografici: in questa operazione spiccano le descrizioni dei desolati suburbi milanesi di Giorgio Falco, i vuoti della pianura emiliana osservati da Ugo Cornia, il ritratto della decadenza napoletana fotografata da Antonio Pascale, i monti di Franco Arminio e i fiumi di Andrea Bajani e di Paolo Morelli. Lo sguardo verso il paese/paesaggio è spesso simile alla ricerca di dialogo con la natura inaugurata dall’ultimo Leopardi. Questo colloquio, a tratti disperato, a tratti fiducioso, ricorda l’intimità di Luigi Ghirri e Gianni Celati nel progetto fotografico Viaggio in Italia, alla ricerca del paesaggio agreste che resiste all’inurbamento più rapace.

Sono proprio le Operette morali uno dei grandi modelli omaggiati: la traccia di Leopardi risuona anche nella citazione «Il verso nutre la prosa», contenuta nello Zibaldone, dimostrando quanto la poesia sparga semi nelle prose odierne: chi ne fosse a digiuno, avrà un banchetto prelibato, generoso e capirà meglio i timori di Giulio Ferroni, per il quale la scena editoriale è oggi saturata da «scritture a perdere». Se gli editori rinunciano al privilegio di discernere, lo farà il critico.

L’antologia offre scoperte deliziose, annoverando oltre alle scritture più note di Cristian Raimo e Nicola Lagioia, autori come Francesco Permunian, che interpreta la scrittura come un esercizio sovversivo contro i dogmi della letteratura alta, la ricerca dell’identità culturale in un mondo a confini sbiaditi di Ornella Vorpsi, come anche la voce suggestiva di Laura Pugno e le sue sirene. C’è spazio anche per narrazioni parodiche, costruite sull’eccesso e ai limiti dell’intellegibile, come i ricordi dispersi di Giuseppe Samonà, le biografie funamboliche ed estemporanee di Eugenio Baroncelli, la sottomissione ai baroni universitari nelle prose di Gilda Policastro e Leonardo Pica Ciamarra. Il paese è osservato dalle prospettive deformanti di Giorgio Vasta, oppure nella scrittura di impegno di Roberto Saviano e Antonio Pascale. La scrittura è traccia di sé nell’itinerario autografico di Emanuele Trevi, indagine sul passaggio del tempo e sull’evanescenza del ricordo in Tommaso Pincio. Nel progetto della scuola emiliana, si recupera il tratto orale, come è per Paolo Nori, virtuoso di monologhi di coscienza o nell’estraniante dialogo coi cari morti di Ugo Cornia, alla ricerca di una felicità eudemonica. C’è poi, per la giovane Emmanuela Carbé, il gioco con la struttura narrativa. L’incrocio misterioso di stile e ricerca di meraviglia per Davide Orecchio. Le scritture del nuovo millennio ricordano l’ambiguità della parola grecapharmacon, veleno e medicina, sbirciando sia Leopardi sia D.F. Wallace, sia scrittori come Calvino, che hanno praticato la scrittura allontanando il riferimento a sé stessi.

Se nel complesso l’antologia si rivela un’ottima e convincente cartografia del presente, c’è da dire che sarebbe stato più interessante un raggruppamento tematico dei testi. C’è una certa dispersività, riconosciuta dallo stesso curatore, unita a un linguaggio che, in tutta onestà, potrebbe risultare astruso al profano, a differenza della limpidezza chirurgica di Daniele Giglioli. È come se Cortellessa ambisse ad aprire e chiudere troppe discorsi e indugiasse nell’esprimere in modo diretto prese di posizioni forti. Certo, è notevole la ricerca nei contenuti, anche nelle letture che corroborano i commenti del curatore, ma qua e là il linguaggio sconfina nel tecnico, in un’analisi il cui limite sta forse nella devozione allo stile, nonché in una variazione sul tema della fortunata metafora della carta e del territorio.

(La terra della prosa, a cura di A. Cortellessa, L’Orma, 2014, pp. 896, euro 30)

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