“La ferocia”
di Nicola Lagioia

di / 4 novembre 2014

«Perché tanta sofferenza?» La domanda sorge spontanea avanzando verso un epilogo che tarda ad arrivare tra le 418 pagine de La ferocia di Nicola Lagioia (Einaudi, 2014). Parte di questo supplizio è presto spiegata: si tratta di un romanzo massiccio, troppo prolisso per una narrazione che avrebbe potuto trovare il suo compimento in un volume di metà spessore. Andiamo con ordine però, partendo da una constatazione universale sulla letteratura alla quale sfugge lo specifico caso in esame, e giustifica il restante patimento: quando una storia chiede al lettore molto del suo tempo sarebbe gradito che dosasse con equilibrio il tipo di sensazioni che suscita, somministrando, accanto al dolore, parentesi dove la lettura si fa più sciolta e clemente. Chi pensa che per produrre buona letteratura si debba ad ogni costo puntare su storie dalle sfumature amare, dove il disagio è palpabile pagina dopo pagina e la diagnosi di fine lettura è che la vita è un’angoscia, si sbaglia di grosso. Non è certo avvelenando le frasi con un senso di mestizia generale che ci si fregia del marchio di romanzieri impegnati, quasi che a un intellettuale sia interdetto provare una qualche forma di piacere in vita che vada oltre il masochismo.

La trama segue una struttura abbastanza classica, con atmosfere da noir mediterraneo: Clara, la figlia di Vittorio Salvemini, un imprenditore edile della Bari che conta, viene ritrovata morta, apparentemente per suicidio. Scavando a ritroso nella sua breve esistenza attraverso i ricordi di chi l’ha conosciuta, viene fuori tutto il marcio che l’aveva circondata, un mondo equivoco fatto di adulterio e droga, al quale la ragazza sembrava ineluttabilmente destinata perché consacrata a una tristezza cronica come il resto della sua famiglia. I Salvemini, infatti, soffrono tutti a proprio modo di mal di vivere, e un senso di pessimismo cosmico ammorba l’intero romanzo finendo per aggrapparsi anche al lettore.

A questo punto, siamo d’accordo sul fatto che di negatività se ne respira parecchia, ma la lettura di un testo si può scomporre in più livelli, e se la scelta della materia da trattare e dei soggetti sui quali costruire l’intreccio trasuda affanno, c’è sempre la possibilità di compensare con una prosa passionale e stilisticamente ben calibrata. E invece no, al povero lettore nemmeno è concesso godere di questa consolazione. Il problema è che lo stile è spesso criptico, la sintassi non scorre a causa di periodi che si incartano su loro stessi e il costante ricorrere a similitudini di dubbia evocatività rallenta di molto la lettura. Quest’ultimo inghippo però si presenta solo nel caso in cui il fruitore del testo sia particolarmente caparbio e si metta in testa di provare a decifrare l’ininterrotto delirio metaforico, diversamente si può sempre decidere di rinunciare all’esegesi per accelerare il traguardo verso le pagine finali. Frasi come «a Michele sembra che sua sorella stia per disfarsi o morire, trafitta da un dolore meno penoso dell’impegno che deve metterci per non mostrarlo a lui, mostrandolo», o ancora «non era molto oltre la trentina, ma non poteva avere meno di venticinque anni a causa dell’intangibile rilasciamento dei tessuti che trasforma la sveltezza di certe adolescenti in qualcosa di perfetto», sono semplicemente troppo: troppo ampollose, troppo volutamente sibilline per sembrare davvero cariche di significato. Di un ermetismo autocompiaciuto e pavoneggiante che rende il libro un puro prodotto narcisistico al quale sono stati recisi gli scopi comunicativi.

Però insomma, nel caso in cui il romanzo venga letto da chi alla letteratura attribuisce scopi altri, che non contemplano la volontà di arrivare davvero a parlare al lettore, in tal caso il coinvolgimento sentimentale monocorde e l’impenetrabilità di certi virtuosismi sintattici de La ferocia potrebbero anche essere considerati ammirevoli.

(Nicola Lagioia, La ferocia, Einaudi, 2014, pp. 418, euro 19,50)

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