“L’impazienza del cuore”
di Stefan Zweig

Una riflessione sulla doppiezza dei nostri rapporti con gli altri

di / 17 aprile 2015

Stefan Zweig scrisse il suo primo romanzo a più di cinquant’anni. Prima si era largamente dedicato a scrivere poesie, novelle, drammi, diverse biografie e saggi storici. Opere che lo resero famoso e che contribuirono a definire il suo stile di grande respiro, la sua scrittura limpida e misurata, capace sì di scorrere con eleganza, ma anche di immergersi senza timore nelle profondità oscure dell’animo umano. Tutte caratteristiche che si ritrovano magistralmente riunite ne L’impazienza del cuore (Elliot, 2014), scritto quando Zweig era da tempo in esilio, tra il 1936 e il 1938, alla vigilia della seconda catastrofe mondiale.

E proprio alla vigilia dell’altra catastrofe mondiale, la prima, è ambientato il romanzo. Un giovane ufficiale di cavalleria austriaco a servizio in una guarnigione di provincia viene invitato a un ricevimento nell’imponente castello dei Kekesfalva, nobile famiglia del luogo. E lì,  mentre il fasto della serata sta dando forma a una meravigliosa parentesi nella sua vita, il tenente Anton Hofmiller commette un’innocente gaffe nei confronti di Edith, figlia prediletta del padrone di casa e ragazzina paralitica.

Da quel momento la sua vita non sarà più la stessa. Infatti, spinto da un sentimento di compassione crescente e irresistibile, inizia a legarsi sempre di più a quella disgraziata famiglia e alla volubile ragazzina, innescando una spirale di eventi di cui perderà presto il controllo e che lo porteranno a smarrire completamente se stesso, fino a fronteggiare la disperazione di una scelta estrema.

La storia tormentata di Anton e Edith esprime tutte le contraddizioni della compassione, dell’altruismo, della pietas; tutto il potere che possiamo esercitare sugli altri e la difficoltà di controllarlo, di arginare l’ondata di conseguenze delle azioni compiute “a fin di bene”, di cui siamo fatalmente responsabili ma che, altrettanto fatalmente, possono finire per travolgerci.

Generosità e repulsione, volontà di fuga e senso di colpa. Dualismi inestricabili nella sottile ‒ a tratti perfino clinica ‒ analisi dei grovigli psicologici tra i due protagonisti, tra sano e malato, libero e prigioniero. La ragnatela tessuta giorno dopo giorno, e perlopiù inconsapevolmente, fatta di tenerezze, promesse, illusioni, ma anche, inevitabilmente, continue menzogne.

Tramite una sapiente costruzione narrativa, che mescola racconto oggettivo e flusso di coscienza, Zweig spalanca una finestra sull’ambiguità intrinseca che ci portiamo dentro, sulla doppiezza del nostro essere, sempre in bilico tra il desiderio di aiutare gli altri e la necessità di salvaguardare la nostra libertà. E, pagina dopo pagina, insiste con grande lucidità a porci la stessa domanda: quanto le nostre “buone intenzioni” sono animate da sincerità, quanto siamo in grado di portarle avanti e soprattutto quanto gli altri possono aggrapparvisi e, al limite, non lasciarle più? Quanto la compassione ci avvicina ai nostri simili e quanto invece può intrappolarci o colpirci come una malattia, se vissuta come un mero obbligo o come un utile escamotage per pulirsi la coscienza?

È il dilemma fondamentale che espone il dottor Condor, medico della giovane Edith e autentica “coscienza critica” del romanzo:

«Ci sono due tipi di compassione. L’una, debole e sentimentale, che è una semplice impazienza del cuore di liberarsi al più presto della pena per la sventura altrui, non consiste nel soffrire con l’altro, ma è un istintivo allontanare il dolore altrui dalla propria anima. L’altra, l’unica che conta, è la compassione non sentimentale ma creatrice, che sa quello che vuole ed è decisa pazientemente e condividendo il dolore a tener duro fino all’estremo delle proprie forze, e anche oltre».

Ma, alla fine, la grandezza del romanzo sta nella sua profonda umanità: quella traboccante di passione, di desideri e di deliri, tanto più autentica quanto distante dall’eroismo o dalla santità.

(Stefan Zweig, L’impazienza del cuore, trad. di Lucia Paparella e Giampiero Dati, Elliot, 2014, pp. 384, euro 14,50)

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LA CRITICA

Nel suo classico stile impeccabile e seducente, Zweig mette in scena con maestria un grande dramma dalla forte valenza psicologica e morale, teso, sincero e amaramente lucido.

VOTO

7,5/10

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