“Un paese ci vuole” dei DiMartino

Un malinconico viaggio verso la necessaria, e voluta, riconquista delle proprie radici

di / 13 maggio 2015

Dopo l’album d’esordio Cara maestra abbiamo perso (2010), il successo di Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile (2012) e l’elettronico Non vengo più mamma (2013), ecco la quarta fatica dei Dimartino, gruppo ormai sempre più cantautorale formato dal palermitano Antonio Di Martino, ex voce dei Famelika e bassista degli Omosumo; ad accompagnarlo c’è sempre Giusto Correnti alla batteria, percussioni e cori (anche lui ex Famelika) e Angelo Trabace al pianoforte e al synth.

Se in Cara maestra abbiamo perso il cantautore esplorava la tematica della sconfitta generazionale, mentre in Non vengo più mamma era il turno dell’eutanasia, in Un paese ci vuole ci parla dell’attaccamento alle origini: «gente che è andata via con il freddo negli occhi, e i figli della nuova Europa, scappati dopo la maturità, ritornano per le vacanze. E non vanno più via».

Il tema cardine di Un paese ci vuole, questa idea di dover (ri)partire dalle origini, dal Paese, si insinua in Di Martino durante un suo viaggio nello stato di Oaxaca, in Messico, paese in cui il cantautore ha ritrovato il calore e la triste felicità della sua Sicilia. Da qui la voglia e la necessità di riappropriarsi del proprio paese e della sua storia e, con la complicità dei racconti del nonno, uno dei quali compare nell’undicesimo brano, “A passo d’uomo”, è nato questo concept album.

Il titolo, invece, è un omaggio ad un passaggio del romanzo La Luna e i Falò, di Cesare Pavese: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Le sonorità sono ricche, ma rispetto ai lavori precedenti sono più orientate ad una dimensione cantautorale, dove si percepisce meno il “gruppo”, cosa che invece accadeva volutamente in Sarebbe bello non lasciarsi mai (…), dando più spazio, appunto, al cantautore, con qualche sfaccettatura a tratti gospel. C’è un uso maggiore del pianoforte, con ingressi strategici di fiati, archi e synth, chitarre elettro-acustiche, che mantengono quasi sempre un’atmosfera di rilassata consapevolezza, rassicurante; tempi medi che si alternano a ballate appassionate, verso il finale troviamo una minore varietà di arrangiamenti, ma senza sfociare in ripetitività. Le melodie sono pregevoli, spensierate, ma non banali. Le liriche colme di minuziose descrizioni atte a dipingere al meglio l’attaccamento a questa benefica realtà di paese.

Registrato interamente in un casolare nella campagna siciliana, nei pressi di Misilmeri, con la collaborazione di Francesco Vitaliti, l’album è poi stato prodotto e mixato a Milano da Antonio “Cooper” Cupertino e Fabio Rizzo.

Se già nei precedenti album comparivano collaborazioni di un certo spessore (Le Luci della Centrale Elettrica, Cesare Basile, Giovanni Gulino, per citarne alcuni), in questa quarta fatica Di Martino ha due ospiti d’eccezione; Francesco Bianconi (Baustelle), con cui ha scritto a quattro mani il bellissimo brano “Una storia del mare”, e Cristina Donà ne “I calendari”, traccia conclusiva.

Il primo brano “Come una guerra la primavera”, singolo di lancio dell’album, ci porta in volo sopra e dentro il Paese, raccontando particolari e dipingendo piccole fotografie di vita paesana, sopra il continuo saliscendi del pianoforte di Trabace: «due ragazzi su una panchina, scivolati da una cometa, dai mattoni di una provincia costruiscono un’altra vita. C’è tuo figlio che sta correndo, come un dito sul mappamondo, in un cortile di sogni belli, sotto una pioggia senza gli ombrelli. Semplicemente arriva qualcosa che prima non c’era. Come una guerra arriva la primavera».

La bella “Niente da dichiarare”, con i suoi archi che le sue tastiere, “La vita nuova”, piano e chitarra, e “Da cielo a cielo” raccontano di gente che
prova a scappare o se ne è andata, che ha visto il mondo, ma che non riesce a non tornare.

La delicata “Una storia al mare”, scritta e cantata con Francesco Bianconi dei Baustelle, racconta di un amore estivo che dura il tempo di una vacanza, tra descrizioni surreali e senza tempo («case a strapiombo sull’acqua, frammenti di vetro, coralli e conchiglie, sul molo c’è un cane che abbaia ad Ulisse e a quello che resta della civiltà»), e una melodia che inizia piano, con una tastiera, presto arricchita dagli archi, per poi dare spazio anche a chitarra e batteria, crescendo, ma mantenendosi calma. «C’è una ragazza di Roma che arriva ogni anno, porta un cappello di paglia, si fida di me, ma poi l’inverno la porta lontano».

“La foresta” è un brano strumentale, unico ad allontanarsi dall’atmosfera soft dell’album, misterioso come lo sono le “Case Stregate” («stregate da storie d’amore violente»), altro pezzo con descrizioni a tratti surreali e un arrangiamento a dire il vero non troppo originale, o vario.

Ne “L’isola che c’è”, uno dei brani meglio riusciti dell’album, sopra una rete di chitarre acustiche cui si aggiungono archi, fiati e tastiere, Di Martino cuce una tela di ritagli di vita di paese. Ne nasce una tenue esaltazione della nostalgica felicità della vita di Paese e della sua complementare semplicità. «Nei pensieri di una balena che si è persa cercando un po’ di felicità, lontano dalla città, sembrava davvero incredibile e invece era così facile».

Una condizione di felicità che porta quindi a quegli stati di beatitudine di cui parla in “Stati di grazia”, che ci prendono all’improvviso, come «un vento nelle strade tra i palazzi».

Il decimo brano è la struggente ballata “Le montagne”, in cui il cantautore parla dei ragazzi che si allontanano dalle protettive montagne per andare in città, ma conservandone la nostalgia, che puntualmente ritorna. «Le montagne ti seguiranno, sui piatti bianchi di una cena, o nei rumori di una metropolitana. Lidia ascoltale mentre lavori, o mentre fai l’amore, e parli con qualcuno di me, e dici la solita frase: Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene».

L’album si chiude in coppia con Cristina Donà con la malinconica “I calendari”, altra ballata con sonorità delicate che parla di addii e partenze, ma con il sapore del ritorno: «e sembra che non finisca mai settembre».

Al loro quarto lavoro, forse più un tentativo di transizione verso una carriera maggiormente orientata al cantautorato, i DiMartino ci consegnano un concept album di tutto rispetto in cui la ricchezza delle sonorità fa da contorno alle liriche elegiache e rassicuranti di chi ha riscoperto e riaffermato le proprie origini.

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LA CRITICA

Pur non raggiungendo i livelli di Sarebbe bello non lasciarsi mai…, scrivendo e cantando di ciò che sente più suo, Di Martino ha raggiunto una dimensione di maturità artistica e sonora che sono il preludio, forse, della strada da seguire nei prossimi anni.

VOTO

7,5/10

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