“Una perfetta felicità”
di James Salter

Un romanzo emblematico per un’intera generazione

di / 1 luglio 2015

È rimasto tra pochi. Consuma un terreno di vento sottile, divide il pasto con commensali scelti.

Sostiene lo sguardo dei narratori puri, di quelli per cui le parole modellano il flusso dell’aria e non solo dell’azione. Perché il racconto è un’atmosfera prima ancora di essere un fatto.

A novant’anni, assieme a Richard Ford, James Ellroy, Philip Roth e Don DeLillo, abita la rarefatta penisola dei grandi romanzieri. Americani, robusti custodi di storie.

Questo è quello che avrei scritto. Fino al 19 giugno. Quando un giorno qualsiasi, liquefatto per bene in una seduta di ginnastica, l’ha soffiato lontano. E infilato in mezzo ai molti. A quelli che non sono più. O che, come in questo caso, resistono per sempre in ciò che hanno scritto.

James Salter si è congedato con calma, concedendosi una vita d’aviazione e di lettere, di guerre volanti e conflitti subacquei. E di sei romanzi, tra cui lo splendido Tutto quel che è la vita. L’ultimo pubblicato quest’anno in Italia con il titolo Una perfetta felicità (Guanda, 2015), è apparso in America nel 1975 con un’introduzione proprio di Richard Ford.

Un’opera densa, massiccia, pervasa da una forza linguistica al tempo stesso intima e possente.

La vicenda è quella di Viri, architetto ebreo di origine russa, e Nedra, vivace e fascinosa padrona di casa e del suo cerimoniale. Una solida coppia di coniugi borghesi, riparata nel suo bozzolo di vita odorosa, nell’ovatta di pranzi fragranti, nel rituale impermeabile di una serenità scandita.

Due figlie intente a sbocciare, un corollario di buone amicizie per inondare i bicchieri, tutto il manipolo di norme e di arredi necessari a sentirsi al sicuro.

Eppure, come è facile sospettare ben presto, la facciata non basta.

Le pareti di luce al mattino, la casa sull’Hudson,le conversazioni più o meno brillanti, cani, cavalli, abeti imbanditi, sono la scenografia ideale per il dramma quotidiano della disillusione. Entrambi assolvono il loro obbligo familiare, cesellano cornici di festa per le loro bambine, progettano quei giochi e quegli umori di sogno che loro hanno perso per strada. Entrambi si afflosciano, entrambi tradiscono. Sono ordinari come il loro copione.

Viri s’invaghisce di Kaya, ma la vernice d’amore si asciuga molto in fretta; Nedra coltiva la sue carezze parallele per molto più tempo e poi decide di partire, di cercare quella porzione di se stessa che in tutte quelle stanze non aveva rintracciato.

Non c’è nulla di rocambolesco nella loro esistenza, in quelle fette di abitudine spartita con tanta noia addosso. Come se fosse normale, il destino irreversibile di tutti i matrimoni. Perché forse lo è.

Perché forse quasi sempre, anche in assenza di bollette minacciose, di tasche smagrite, anche quando la tavola è gonfia, la sconfitta aleggia comunque in chi si respira accanto ogni giorno di ogni anno. Imboscata tra i cuscini, camuffata nei risvegli, la stanchezza diventa un’altra pelle. E attraversa ogni pagina.

Ed è (probabilmente) impossibile entusiasmarsi per le stesse mani, per gli stessi occhi parcheggiati su di sé, per quelle doti che diventano prassi e poi fastidi.

Capirsi è una finzione, mascherata nella vacuità stracca di dialoghi spenti, spesso conditi da un vuoto spietato. E la scrittura di Salter realizza ed amplifica un’analisi limpida, lenticolare, l’osservazione attraverso un vetro di nuotatori svogliati, trascinati sbuffando nelle loro vasche tiepide.

«Fra poco Nedra avrebbe preparato la cena. Avrebbero mangiato qualcosa di leggero: una patata bollita, carne fredda, accompagnate da quel che restava di una bottiglia di vino. […] Nedra avrebbe fatto il bagno. Come chi ha dato tutto di sé – gli artisti, gli atleti – sarebbero sprofondati in quell’apatia che soltanto il compimento dell’opera concede».

Relazioni coniugali eviscerate con acume e disincanto, con le storture e i doppi fondi che quasi tutti i rapporti contengono nel proprio sangue.

Esemplari in quest’ambito di “indagine” sono i romanzi di Andrew Sean Greer (La storia di un matrimonio), di Robin Black (Ritratto di un matrimonio), di Maggie O’Farrell (Istruzioni per un’ondata di caldo), di Elizabeth Jane Howard (Il lungo sguardo), come anche il recente e italiano Lacci di Domenico Starnone.

In Una perfetta felicità trasuda invincibile la distaccata e quieta esperienza di Salter, lo sguardo infilzante del pilota di caccia che è stato, convinto che volare fosse molto più facile che scrivere un libro.

E anche se ha abbandonato il cenacolo degli ultimi eletti, è riuscito di certo in entrambi i decolli.

(James Salter, Una perfetta felicità, trad. di Katia Bagnoli, Guanda, 2015, pp. 376, euro 18,50)

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LA CRITICA

Il retaggio prezioso di un grande scrittore appena scomparso. Romanzo di vita familiare borghese, luminosa solo in apparenza, col suo concerto d’ombre e di fatiche. Innegabile esempio di sapienza narrativa.

VOTO

8,5/10

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