“Rumore bianco”
di Don DeLillo

di / 12 ottobre 2015

Jack Gladney è il fondatore del dipartimento di studi hitleriani presso il College on the Hill. Vive a Blacksmith, piccola cittadina di provincia, insieme a Babette, la sua quarta moglie, e ai loro quattro figli, avuti da precedenti matrimoni. In un mondo in cui il tempo è scandito dai servizi televisivi e la domenica ci si raccoglie al supermercato o al Mall, la loro sembra essere una famiglia non troppo diversa dalle altre, consumistica e bizzarra. C’è Heinrich, il figlio maggiore, quattordicenne che ha per amici uno scacchista pluriomicida e un ragazzo che si allena per resistere il maggior tempo possibile in una gabbia di serpenti. C’è Denise, che porta sempre con sé il manuale medico dei prodotti farmaceutici, e Steffie, novenne abbastanza scaltra da offrirsi come vittima durante la simulazione di una catastrofe. E poi c’è il piccolo Wilder, che parla poco e tuttavia sembra essere il più consapevole della realtà distorta che li circonda.

Lungo tutto il romanzo molti fili corrono e si intrecciano: il consumismo che imperversa senza che nulla possa scalfirlo, lo spettro dell’inquinamento incontrollato, il bisogno quasi spasmodico di un evento catastrofico e spettacolare. Quando, un giorno, una nube vaporosa e informe fa la sua comparsa nel cielo, intrisa di Nyodene D, sostanza altamente tossica, la famiglia abbandona la casa seguendo direttive governative e si rifugia, insieme a centinaia di altre persone, in un campeggio boyscout. Nella paura e nello scompiglio, ciò che più risalta è il fatto che si tratti di un avvenimento spettacolare e stupefacente (non a caso, “the airborn toxic event”). Durante l’evacuazione, mentre la fila di macchine e pedoni prosegue lentamente lungo la strada, alzando gli occhi alla nube nera, Jack dice: «Era qualcosa di segreto e suppurante, un’emozione sognata che segue il sognatore anche dopo il sonno».

E poi, su tutto, svetta la paura della morte. Marito e moglie si rimbalzano la palla su chi morirà prima: «Voglio morire prima di te» si ripetono ingenuamente, ma la preoccupazione più grande è sempre la propria, di morte. Il punto sembra essere: se tutto è sostituibile, se ogni oggetto dimenticato, perso, buttato, è presto sostituito da un altro, che ne sarà di me, di un me che scompare? Jack si affida, riluttante ma affascinato, ai dati malauguranti di un computer, Babette cerca conforto e cura nel Dylar, una pastiglia che nessuno ha mai testato prima.

Leggendo Rumore Bianco, di Don DeLillo, non si può non pensare alla società simulacro descritta da Jean Baudrillard, inevitabilmente attratta dalle dinamiche di consumo e dall’infinita potenza dei simboli. «Fotografano il fotografare», dice Murray, collega di lavoro, a Jack, quando i due vanno a visitare la stalla più fotografata d’America. E quest’affermazione potrebbe ripetersi innumerevoli volte. La televisione è un simulacrum, il supermercato è un simulacrum, la stessa nube tossica è un simulacrum.

Su questo terreno comune a DeLillo e a Baudrillard, immagini, segni e codici inghiottono la realtà oggettiva dei fatti.

In un rumore bianco di simulazione e recita, si assiste impotenti alla perdita del reale. L’effetto di déjà vu, segnalato come possibile sintomo a seguito della dispersione di Nyodene D, depotenzia la stessa memoria, inducendo i personaggi a credere che anche i loro ricordi possano essere privi di fondamento.

Rumore Bianco, pubblicato nel 1984, sembra essere immune allo scorrere del tempo, e non a caso continua a essere uno dei grandi capolavori di Don DeLillo. A libro concluso gli umori sono oscillanti: si passa in un attimo dall’approvazione divertita alla desolante tristezza per la specie umana. Conoscendo l’autore, c’è da scommettere che sia voluto anche questo.

 

(Don DeLillo, Rumore bianco, trad. di Mario Biondi, Einaudi)

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