“Elsamatta” di Alessandra Carnaroli

di / 21 dicembre 2015

Nella collana Syn – scritture di ricerca, diretta da Marco Giovenale per IkonaLíber, è uscito da alcuni mesi Elsamatta di Alessandra Carnaroli, un racconto in versi che appare come un accumulo di voci e commenti, una specie di memoria collettiva in cui una comunità aperta e anonima (un gruppo su Facebook) rievoca e racconta da più angolature le prodezze di un personaggio enigmatico, profondamente repulsivo e umano, una “donna matta” dolce e aggressiva che appare per spaventare i bambini, strappare i capelli alle donne o fare un cenno indifferente di saluto; una specie di punto interrogativo ambulante che mette angosciosamente nell’imbarazzo dell’interpretazione, addirittura nel sospetto della civiltà, così si autointroduce “il lavoro”:

Elsa matta quattrocento sessanta sette membri
il lavoro si basa sui commenti postati all’interno
[di un gruppo fb,
«quelli che una volta gli ha fatto la fuga l’elsa matta».
Svago e tragedia normale, quotidiano di una donna
[matta e dei suoi seguaci fedeli, quasi cani. (p. 9)

Probabilmente Elsa è il personaggio più semplice in cui mi sia mai capitato di imbattermi, ma proprio per questa sua semplicità di fondo (quante Elsematte ho incontrato anche io, quante “fughe” e quante scenate hanno fatto anche a me…) il caso e il racconto di questo piccolo disagio infantile e adolescenziale mette in comunicazione una serie di ricordi tutti più o meno traumatici con la violenta umanità di quelle prevaricazioni, di quelle ingiustizie piccole o pericolose. L’amaro e il dolce del ricordo si mescolano allora al rombo della paura, al sospetto, al pericolo; il tutto è vissuto e descritto da una situazione posteriore, quando ormai sappiamo che per la matta è andata a finire male, è stata internata o segregata chissà dove (in realtà non si sa con precisione), e noi rimaniamo ancora col punto interrogativo stampato davanti agli occhi, senza capire di cosa avevamo avuto davvero paura o perché ci sia capitato di avvertire un senso di trasporto e dolcezza. Per intenderci, questo personaggio è uguale a quello che tutti noi prima o dopo ci siamo trovati ad affrontare per lo più nelle periferie delle grandi città, qualcuno che parla ad alta voce sul bus, qualcuno che ci ferma all’angolo della strada e con uno sguardo ci trascina (faccia a faccia, il cuore che magari ci rimbalza in gola) in un mondo allucinato di coerenza ottusa, trascinandoci bruscamente al fondo di una questione (quella umana) che per essere la più urgente viene di prassi scansata (soprattutto dai più pratici) e finisce per essere il sottofondo di un’abitudine (soprattutto alla paura) che con molti altri segnali determina il passaggio dall’infanzia/ingenuità a quello che viene dopo.

povera elsa l’hanno portata in una casa
per curarla
aveva superato il limite
ma però se ci parlavi era buona era dolce
che fine ha fatto
gli volevamo tutti bene
a due persone piace
questo elemento (p. 15)

*

poveretta però che tristezza siamo tutti stati
[inseguiti da lei
adesso però noi c’abbiamo una famiglia un fidanzato
possiamo andare a scuola o averci un lavoro pagato
fare una famiglia
lei niente di tutto ciò
è una delle ingiustizie di questa società che mette
[da una parte i diversi (p. 26)

Almeno apparentemente l’autrice non vuole interessarsi al problema dell’emarginazione e della salute mentale. O meglio dà a intendere di volerlo fare come lo farebbero due signore che aspettando il tram, non fanno nulla di più che sospirare «poveretto» guardando un vagabondo che dorme sotto la pensilina. Essa si limita a riportare uno stralcio di quei lunghissimi post con file di commenti incorporati che ogni giorno leggiamo sul più noto dei social. Dall’altra parte di Elsa la matta, della sua vita altrimenti dissipata, persa, inutile, letterariamente insignificante c’è il muro del ricordo e dell’opinione collettiva colto nel luogo in cui la condivisione di questi scambi(?) si fanno scrittura. Una scrittura un po’ sgrammaticata, mezzo slang, semplificata, che i versi mimano fino in fondo suggerendo anche il tono con cui le brevi frasi per lo più all’indicativo devono essere pensate, forzando l’interpretazione interiore come se si leggessero pure esternazioni in cui il “letterario” è completamente bandito, e con lui è assente l’autore e ogni suo programma, progetto, opinione. Una scrittura non autoriale, senza filtri, in cui confluisce tutta la spontaneità, la limitatezza e l’ipocrisia della (nostra) voce comune.

mia madre straniera nel 1980
girava con me in braccio
(avevo pochi mesi)
si avvicina l’elsa matta e chiede se poteva tenermi
[in braccio lei
mia madre non conoscendo la fama dell’elsa
ancora non conosceva l’italia
con gli stranieri è cosí ci vuole tempo per farli
[abituare
molto ingenuamente ha accettato.
non è successo niente ma ora se mi chiedono
se sono stato mai in pericolo
sí lo sono stato nei suoi bracci
peggio di stare in braccio a uno della mafia alla
[camorra
quelli che tagliano gli orecchi ai sequestrati
forse gli piacevano i bambini piccoli
ne voleva uno anche lei
ma chi glielo faceva fare di sicuro
gli hanno legato le tube a una cosí
per non continuare la razza
commenta (p. 28)

Ma non sarebbe nemmeno del tutto corretto definire questa scrittura non-autoriale o fuori da una tradizione, in quanto i precedenti e le possibili ascendenze, alcune denunciate esplicitamente in chiusura di volume, non mancano alla Carnaroli, e ci riportano a un momento abbastanza preciso dell’ultima poesia italiana. A ben vedere ciò che la Carnaroli fa è sostituire l’arbitrio autoriale con un altro sistema arbitrario come quello che regola le dinamiche di accumulo delle esperienze pubblicate sul wall. E ci sarebbe da chiedersi se questo espediente non serva in realtà a sottolineare l’ingerenza dell’individualità che come una cellula impazzita insegue se stessa ripetendosi e autocommentandosi senza esaurirsi davvero, almeno finché l’io oggettivo del poema non si affranca da sé giustapponendosi alla piattezza del referto e lanciando l’ultima testimonianza di una vita vittima e schiava, paradossalmente pacificata (brutalmente annichilita) nella retrocessione animale cui le “forme evolute del possesso” ora la possono ridurre.

cosa mi toccano i carabinieri gli eroi
[dellapiatra i marò
cosami toccano nel senso di pancia nel senso
[di fregna
come fica o fico alberello che vedo da questa
[camera
sempre questa i muri la finestra il letto
dicono che ci legano al letto non è cosí
si sono evoluti nelle forme di possesso della
[mia costola del prolasso
allutero
senza neanche un figlio piccolino
un bambino un cicciobello bua
un sbrodolino
leucorrea non vuole dire lumaca mi hanno
[detto
ma un tumore
un incesto della pelle […] (p. 58)

La cosa migliore di Elsamatta è nella convivenza di una specie di storiella altrimenti non raccontabile su un personaggio che in qualche modo ci riguarda tutti, e le implicazioni di poetica (di comunicazione) che vengono ad essere sperimentate o rievocate. Anche in virtù del fatto che si legge agevolmente in una seduta, il libro di Carnaroli instilla dei vizi di sistema nella prassi della lettura automatica cui ci siamo velocemente abituati, facendo passare sotto i nostri occhi distratti la spunta segreta di un malware (come ad esempio nella seconda parte di p. 10) che non è più possibile disinstallare.

(Alessandra Carnaroli, Elsamatta, edizioni IkonaLíber, pp. 64, euro 10)

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