“Il figlio di Saul”
di László Nemes

Il più grande film mai realizzato sulla Shoah

di / 26 gennaio 2016

il figlio di saul

Vincitore del Gran premio della giuria al Festival di Cannes, del Golden Globe per il miglior film straniero, Il figlio di Saul, opera prima dell’ungherese László Nemes, è il candidato di punta per il premio Oscar per il miglior film straniero di questo 2016. Se tutto va come deve andare, ha già vinto la statuetta, la prima nella storia del cinema magiaro. Senza girarci intorno, Il figlio di Saul è la ricostruzione più autentica possibile della vita all’interno dei campi di sterminio mai fatta nella finzione cinematografica, un’opera di una potenza paragonabile a Se questo è un uomo di Primo Levi.

Negli anni, di grandi film sull’Olocausto ne sono stati fatti tanti e in tanti modi diversi. In tutti, però, l’esigenza della memoria si è sempre accompagnata alla necessità della narrazione che ha mascherato l’orrore, lo ha enfatizzato, in alcuni casi lo ha vestito di abiti poetici per colpire ancora di più il pubblico (due esempi: Kapò di Gillo Pontecorvo e La vita è bella di Roberto Benigni). László Nemes non fa niente del genere, non accompagna lo spettatore nell’orrore, ce lo scaraventa senza prepararlo. Non dice dove siamo, non dice quando siamo, non fa vedere il mondo prima o fuori dal campo. Niente. L’unica indicazione che gli fornisce è nella didascalia che apre il film, su cosa sia un sonderkommando, il gruppo speciale composto da detenuti ebrei che i nazisti reclutavano all’interno dei campi di sterminio per lavorare alle camere a gas. Gli altri prigionieri odiavano i membri dei kommando perché avevano alcuni privilegi ed erano complici (involontari) dei nazisti. Alcuni abusavano del loro potere, è un fatto storico, come è un fatto storico che dopo quattro mesi di lavoro finivano comunque nella camera a gas con gli altri, perché iniziavano a sapere troppo dei campi e potevano diventare pericolosi.

Saul fa parte di un sonderkommando. È incaricato con gli altri di accogliere gli ebrei appena arrivati nello spogliatoio, condurli nelle “docce”, raccogliere i loro vestiti togliendo via tutto quello che c’è di prezioso, pulire la camera a gas e portare via i corpi – i pezzi, come li chiamano tra di loro – verso i forni crematori. Saul svolge i suoi compiti a testa bassa, eseguendo gli ordini meccanicamente, come tutti gli altri. Solo che durante una delle docce un ragazzo poco più che adolescente sopravvive al gas, per essere poi soppresso da un medico nazista. Secondo il protocollo gli spetterebbe un’autopsia, per capire cosa lo abbia fatto sopravvivere. Saul si impone con gli altri detenuti per fare avere una degna sepoltura a quel ragazzo. Non deve finire nel forno, ma sottoterra, perché quel ragazzo che non ha mai visto è suo figlio.

Che sia realmente il figlio di Saul non è chiaro e tutto sommato non importa. La missione di Saul all’interno del campo è quella di ricordare la dignità possibile anche in pieno svolgimento dell’orrore, ricordare che i corpi non sono solo pezzi, non sono solo pratiche da svolgere ma la traccia mortale di una vita giovane che può essere anche speranza per il futuro. Di Saul, del resto, non si conosce nulla, solo che è ungherese e che è ebreo. Non si sa se ha famiglia, se davvero ha figli. La sua difesa estrema dei resti del ragazzo dà un senso nuovo al suo marciare deciso nel campo. Continuando a seguire gli ordini e a subire le botte, Saul si muove per cercare un rabbino che celebri il funerale del figlio. È la sua unica ragione per continuare a vivere, il suo unico obiettivo, l’unica cosa che importa anche mentre intorno succedono cose più grandi, mentre viene organizzata una rivolta, mentre i prigionieri provano a raccogliere prove per mostrare al mondo cosa succede dentro il campo, anche quando incontra una donna che conosceva prima di tutto quanto.

Lontano da ogni forma di retorica, László Nemes segue per tutto il tempo Saul, incollando la telecamera al suo volto in lunghi piani sequenza e lasciando che la storia si svolga attraverso il personaggio. Il campo, le docce, i pezzi, il fuoco, le fosse comuni, non vengono mai mostrati direttamente, solo attraverso gli occhi del protagonista, unico vero centro focale di tutto il film. Girato in un formato 4:3 (quello dei vecchi televisori, per intenderci, quasi quadrato), Il figlio di Saul chiude lo sguardo dello spettatore sul contesto. Il fuoco della ripresa è sempre su Saul, il resto si intuisce fuori campo, sfocato e distante, destinato a mostrarsi pienamente solo quando viene guardato da Saul. È attraverso questa scelta stilistica austera che Nemes riesce a rappresentare l’orrore con la maggiore autenticità possibile. Saul è testimone e attore imperturbabile della vita del campo, della morte continua, delle montagne di corpi senza vita. Non alza mai la testa, non discute mai, si toglie il berretto quando passa un nazista, si lascia umiliare senza battere ciglio e poi riprende a marciare.

Costato un milione di euro, girato in meno di un mese, Il figlio di Saul riesce nella grande impresa di comunicare l’incomunicabile senza mostrarlo. Terminate le riprese, sono stati necessari cinque mesi di post-produzione per il montaggio sonoro. Quello che lo spettatore non vede e che Saul vive viene fatto sentire nelle scene fuori campo, nei pugni che battono sulle porte della camera a gas, nelle urla, nel rumore dei lanciafiamme, negli spari e negli ordini nazisti che schioccano sulle schiene degli ebrei.

Al suo esordio, il trentanovenne László Nemes è riuscito a fissare un nuovo standard in un sotto-genere cinematografico già affollato di grandi ed elogiati precedenti. Lo ha fatto con una preparazione storica rigorosa e attenta che è stata fondamentale per riuscire a lasciar scorrere la storia sullo sfondo del suo protagonista. Saul è Géza Röhrig. È un poeta ungherese di quarantanove anni, autore di due raccolte di poesie sulla Shoah. Non ha mai recitato prima. La sua è la migliore interpretazione dell’anno. È il corpo del film, la carne muta che vive la Storia.

(Il figlio di Saul, di László Nemes, 2015, drammatico, 107’)

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LA CRITICA

Pur rimanendo nell’ambito della finzione, Il figlio di Saul, l’opera prima del regista ungherese László Nemes, è la testimonianza cinematografica più autentica mai realizzata della vita di un campo di sterminio nazista. Un film che riesce a far capire più di qualsiasi altro cosa sia stato l’orrore.

VOTO

9/10

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