“Goodness” dei The Hotelier

Avete già scelto il disco capace di farvi degnamente compagnia per tutta l'estate?

di / 15 giugno 2016

Goodness dei the Hotelier Flanerí copertina

Qualche volta basta una fotografia a far partire tutto. In questo caso la copertina di un disco. Una casa bianca, pieno stile americano del Sud, un tetto blu scuro con il prato verde davanti. Sulla parte frontale una scritta in vernice nera: Home, Like No Place Is There, titolo del secondo – celebratissimo – disco degli Hotelier, The Hotel Year. Vidi lo scatto in un articolo straniero di qualche anno fa sulle più promettenti band americane in circolazione e fu amore a prima vista. O ascolto, fate voi. Spero sia una conoscenza gradita anche per voi, soprattutto alla luce della bellezza dell’ultimo Goodness.

Ora, non vi spaventate: se sono stato abbastanza bravo in questo articolo da farvi venir voglia successivamente di approfondire la tematica, vi accorgerete che gli Hotelier vengono considerati una band emo. Dopo troverete termini più gradevoli come punk o rock, ma inizialmente la parola è proprio quella. Non preoccupatevi: siamo lontani dalla scena di inizio millennio a cui tutti – giustamente –  pensiamo. Quel periodo è passato, quella moda commerciale costruita per sfruttare a livello di vendite di dischi il perenne disagio degli adolescenti non c’è più. I cantanti truccati (male) alla Robert Smith e le urla esagerata sono svanite, la patina oscura, il luccichio minaccioso e la plastica tetra sono andati via. È rimasta solo l’emo–tività. Per fortuna. Il termine non è più dispregiativo e molti colleghi degli Hotelier hanno creato una scena molto più intensa e piena di dischi importanti. Lontano dalle logiche delle major e dai bisogni del pubblico, esistono gruppi che con intensità e bravura raccontano tutte le piccole grandi tragedie dell’animo umano. I The Hotelier con il loro ultimo Goodness proseguono magnificamente il percorso.

L’impatto è immediato. Batteria, chitarra, voce punk-rock a livello musicale, case delle vacanze estive, storie finite male, incomprensioni e amare riflessioni a livello testuale. In Goodness c’è una canzone dal titolo molto significativo: “Opening Mail For My Grandmother”. Mi ci soffermo perché incarna alcuni aspetti molto significativi della band di Worcester, Massachusetts. Abbracciati da un suono estremamente gradevole nonostante la sua scarnezza, c’è quel recupero sentito ma mai banale dell’adolescenza, dell’infanzia, quel rifugiarsi nella fanciullezza per scappare da un mondo troppo adulto e sporco. L’aspetto che apprezzo molto del loro stile è che per quanto la parte strumentale sia ruvida, impetuosa ed essenziale questa si combina perfettamente con la delicatezza e quasi l’accortezza con cui i sentimenti e le emozioni vengono espresse.

Anche i The Hotelier spesso urlano (come nel finale di “Sun”), supportati da riff affilati, taglienti ritornelli e una batteria che non molla mai (sentite “Soft Animal” o “You In This Light”): ma non sono sfoghi senza senso, anzi, sono una dimensione necessaria, uno schiaffo, una protesta davanti all’incedere ingiusto della realtà. Una serie di brani diretti e sinceri per chi nonostante il sole, le spiagge e le vacanze ha sempre un po’ di tempo da passare in compagnia dei propri sentimenti. Lontani dai più immediati e sbagliati pregiudizi, avrete modo di conoscere e gustare un lavoro profondo, empatico e diretto, alternando momenti furiosi ad altri dove dovrete trattenere le lacrime.

P.S.: volete sapere come nasce lo scatto che fa da copertina a Goodness? Perfetto, basta vedere come va a finire il video del primo singolo–teaser “Goodness Part.1“.

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LA CRITICA

Giunta al terzo lavoro, supportata da un punk–rock di sicuro impatto, i The Hotelier continuano a raccontare con sincero trasporto tutte le dinamiche più delicate dell’animo umano.

VOTO

7,5/10

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