“Giorni selvaggi”
di William Finnegan

Vincitore del Premio Pulitzer 2016 per il migliore memoir

di / 2 novembre 2016

Prima ancora di concepire un articolo, solitamente, si annusa un po’ in giro. Quanto meno io lo trovo necessario. Scandaglio, rovisto gli umori di stampa, mi sbraccio parecchio tra cataste di giudizi e voti incipriati. E nel caso di Giorni selvaggi di William Finnegan (66thand2nd, 2016), premio Pulitzer 2016, molti dei pezzi compulsati per radunare un po’ di carne prima del banchetto, avevano un dato in comune. Grondavano di citazioni. Virgolettavano, sembravano solo un pretesto punteggiato per dare spazio a quell’enorme spuma di discorsi che stavano vagliando. Ma in realtà, l’impressione tra le mani era che stessero a guardare. Che non ci fosse altra scelta sul piatto se non quella di parlare del testo solo e soltanto attraverso di esso. Ma proviamo a dire la nostra.

In effetti il memoir di Finnegan è una marea effervescente, un carnevale acquatico (ma non acquoso) la cui stesura ha richiesto più di vent’anni. Biografia di un’ossessione e agiografia di uno sport, in cui l’autore racconta l’insolente storia d’amore tra lui e il mare. Non tanto come cornice liquida di narrazioni intrepide, ma come ingrediente uterino dentro le cui onde si consuma un mistero, un rito iniziatico, «un’eruzione di realismo magico». Così, tutti i suoi spostamenti, da Los Angeles alle Hawaii quando aveva tredici anni, i continui pellegrinaggi balneari dopo il diploma e l’università, il valzer di coste lungo cinque continenti, rimbalzando tra Fiji e Sud America, sono il fondale cangiante di una ricerca infinita.

Quella dell’attimo al confine. Dove non si appartiene a niente. Dove un altare di creste può innalzarti al di sopra del destino comune, dove il tempo accavalla le gambe e si aspetta la scossa. L’attraversabile. Trattare l’oceano come una bocca. E farsi inghiottire e uscirne vivi.

«Le onde sono il campo da gioco. Il fine ultimo. Sono l’oggetto dei tuoi desideri e della tua ammirazione più profonda. Allo stesso tempo sono anche il tuo avversario, la tua nemesi, il tuo nemico mortale. L’onda è il rifugio, il tuo nascondiglio felice, ma anche un territorio selvaggio e ostile, una realtà indifferente e dinamica». E a questa dualità congenita Finnegan ha consacrato gran parte dei suoi anni più accesi. Sabotando e subordinando rapporti di coppia, relazioni familiari, progettando percorsi a misura di surf.

Praticandolo con fare liturgico, per cui quel riottoso primordiale elemento «era simile a un Dio insensibile, infinito nella sua pericolosità, dotato di un potere smisurato».

Ancora tante sue parole, splendidamente restituite nella traduzione corale di Fiorenza Conte, Mirko Esposito e Stella Sacchini. Come quelle indispensabili per espugnare il cuore tecnico di questo sport. Moltissime, forse anche troppe per un profano della tavola, che fatica a destreggiarsi tra i gorghi di un gergo un po’ settario. Dal “set” allo “swell”, alla “zona di takeoff”, fino all’esame morfologico di ogni contesto d’azione: «Studiare in modo attento e scrupoloso un piccolo lembo di costa […] persino ogni singolo scoglio, in ogni possibile combinazione tra la marea, il vento e lo swell – uno studio longitudinale, che si rinnova di stagione in stagione – è l’occupazione di base di qualsiasi surfista nel suo break d’elezione».

Basta poco a comprendere che per Finnegan il surf è molto più di un’attività motoria, o di una posa noncurante da equilibrista degli oceani, con la faccia salata e la pelle indurita. Capire il mare vuol dire vendergli calcoli, occhi, attenzioni. Sezionare un’onda, galopparla ancora e a volte non sgominarla mai. È la missione senza scadenza. E questo, ben oltre le colate di nozioni ingegneristiche, è il dato saliente di Giorni selvaggi. Certo, c’è anche dell’altro.

C’è l’America, ci sono le isole, lo sterminato atollo degli anni Sessanta con le sue increspature, lo sciame psichedelico di musica, abbandono, deragliamento e sesso. L’istinto del viaggio come sintomo vitale. Il mondo che evolve o è convinto di farlo. C’è l’esistenza di un uomo che è sceso dalla tavola, ha pestato la terraferma e ha scelto di scrivere. Si è trasferito a New York, dove altre correnti l’hanno irretito. È diventato editorialista e reporter di guerra, si è affacciato e sporcato su scenari del conflitto: Nicaragua, Sudan, Balcani. Cercando motivi e sopravvivenze.

A sessantaquattro anni il corpo non si avvita e non guizza come quando si accontentava di un’auto prestata per addormentarsi. Ma Finnegan non ha smesso di surfare. Non vuole e non può. Si spoglia, afferra il suo strumento e chiede al mare di chiamarlo per nome.

 

(William Finnegan, Giorni selvaggi, trad. di Fiorenza Conte, Mirko Esposito e Stella Sacchini, 66thand2nd, pp. 496, euro 25)
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LA CRITICA

Inondante memoir di un surfista scrittore. Finnegan, con una lingua sfaccettata e possente, ci incanta raccontando tecnicismi, oscurità e bellezza di uno sport capriccioso e pieno di fascino.

VOTO

8/10

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