La messinscena dell'”io”

Crisi del romanzo o superamento dell'autofiction?

di / 1 dicembre 2016

In questi mesi del 2016 ho avuto letture disordinate e discontinue. Negli ultimi giorni, però, a causa di un banale riordino della libreria, mi sono accorto di un fenomeno che vorrei in qualche modo provare a descrivere. Non sono sicuro, ovviamente, se sia una tendenza in atto o un mero capriccio della disposizione dei miei testi, ma ripensandoci mi pare che possa essere uno spunto buono per ragionare. Ovvero il fatto che molti dei libri che ho letto quest’anno non siano definibili come romanzi, o meglio possono essere considerati romanzi ma anche altro.

Parto da tre libri che ho qui davanti sulla scrivania, li indico in ordine di lettura: La via di Schenèr di Matteo Melchiorre (Marsilio), Absolutely Nothing di Giorgio Vasta e Ramak Fazel (Quodlibet) e Lettori selvaggi di Giuseppe Montesano (Giunti). Cosa hanno in comune questi tre libri? In primo luogo nessuno di questi testi è quello che dichiara di essere.

Melchiorre sembra costruire un saggio storico, di storia materiale e minuta, in cui si raccontano le vicende di un vecchio sentiero di montagna. Vasta pare proporre un classico libro di viaggio con tanto di foto e diario degli spostamenti. Montesano sembra costruire un diario delle letture, abnorme e gigantesco, ma che in fin dei conti è un saggio di critica letteraria (qualcosa di simile a Biographia Literaria di Coleridge, per intenderci). Ma basta grattare la superficie delle storie per vedere che un’impostazione di questo genere ci manda fuori strada; come lettori ci troviamo spiazzati.

Il libro di Melchiorre, per esempio, non ha nulla del saggio storico così come noi lo immaginiamo, è pieno di passeggiate per paesi, di giorni seduti davanti al caffè, di visite rocambolesche ad alberghi. Il suo libro non è tanto un saggio di storia, ma è il resoconto del lavoro materiale di uno storico: quali sono le ossessioni, le paure, le perplessità che si inseguono nella mente di uno studioso quando gli balena l’idea di scrivere di una “materia”, o di un “fatto”. Quindi non è casuale che La via di Schenèr sia un testo infestato di vere e proprie apparizioni di fantasmi, che guidano Melchiorre lungo la sua ricerca, che lo spronano a scegliere una strada piuttosto che un’altra, che nei momenti di scoramento gli appaiono per suggerirgli una possibile soluzione. Sembra di essere in un testo dell’Ottocento, una storia di spavento e di paura, in cui il protagonista in difficoltà viene soccorso in maniera più o meno consapevole da entità che lo portano a risolvere la sua vita (ho sentito, in certi momenti, baluginare l’ironia e lo spavento che i personaggi di Dickens e l’autore stesso hanno verso i fantasmi, un misto di paura e tenerezza).

Anche Vasta rompe il suo patto con il lettore fin dall’inizio. Il primo capitolo del libro è la narrazione di un sogno, in cui si sogna un viaggio; a questo si affianca una discrasia tra la numerazione dei capitoli (progressiva) e le date, che invece non seguono la scansione temporale. Vasta ci suggerisce insomma che il tempo del racconto e il tempo dei fatti non sono conseguenti, tradendo quindi l’idea stessa del diario di viaggio. Inoltre dopo poche pagine ci avverte che le persone che con lui si muovono lungo i luoghi deserti degli Stati Uniti si sono, durante la stesura del libro, lentamente trasformate in personaggi. In una parola quello che abbiamo davanti è un libro dallo statuto ibrido, proprio come quello di Melchiorre, in cui l’idea iniziale si deforma e qualcosa di diverso si infila e filtra come una luce, come qualcosa che sfarfalla nella prosa e nella costruzione della narrazione. Anche per Vasta questa tensione si condensa in una apparizione fantasmatica, in un dialogo irreale con un cane ai limiti del deserto. L’impressione è che l’apparire di tali esseri opalescenti serva come avvertenza al lettore, un segnavia a rammentargli che qualcosa nel libro non si muove per sentieri soliti e che anzi più essi sembrano definiti e costretti in un ambito di genere, più l’esplosione sarà deflagrante come in Montesano.

L’esperienza di immersione in Lettori selvaggi è decisamente particolare. In primo luogo, parlo del mio approccio: non è necessario leggere il testo seguendo l’ordine dei capitoli, perché appunto esso è una sorta di immenso vagabondaggio dell’autore dentro un’idea di lettura e di cultura ampia e complessa. A interessarmi, in questo momento, è un’affermazione di Montesano, fatta nell’introduzione, che può valer anche per i due testi precedenti. Nella nota introduttiva leggiamo: «Questo libro è una mappa su cui sono indicate opere di poeti, scrittori, pensatori, musicisti, artisti, scienziati: sentieri per chi volesse attraversare il vorticare di tempeste contrastanti in cui siamo sballottati. È una mappa personale il cui sogno più grande è quello di essere anche un’autobiografia di tutti e un romanzo collettivo». Come si vede l’autore parla apertamente di romanzo, anche se nel corso di questa introduzione, ma anche nel breve volgere della frase, utilizza altri termini come mappa, sogno, autobiografia come a sanzionare l’effettiva natura ondivaga, sfuggente a qualsiasi catalogazione, del testo appena dato alle stampe.

Torno alla domanda che nutre questo intervento: ma questi volumi in un’ipotetica libreria dove li mettiamo? Sotto quale genere? Mi sembra che questa empasse sia molto interessante, anche rispetto al dibattito sul bel saggio di Belardinelli Discorso sul romanzo moderno (Carocci, 2016) e alle riflessioni che sono scaturite dalla puntale recensione di Marchesini. La mia riflessione sfiora appena i temi di Belardinelli e di Marchesini, essendo nient’altro che un maldestro tentativo di mettere in ordine la mia libreria di casa.

Torniamo al punto. Un altro dato interessante di questi libri è che pur mettendo al centro del racconto un “io” – lo storico, il viaggiatore e il lettore – questi volumi segnano la progressiva scomparsa dell’autofiction dall’orizzonte narrativo attuale; quasi a bilanciare la vittoria di Siti allo Strega con Resistere non serve a niente (Rizzoli, 2012), forse il momento più alto e finale di quel tipo di postura. Perché non possiamo parlare di autofiction? Semplificando Vasta è veramente andato in America, e ha veramente fatto quel percorso, veramente i suoi libri e i suoi vestiti sono in un container a Zagarolo. Leggendo Absolutely Nothing avvertiamo, però, che non è una confessione, o un memoriale di viaggio, e non è neppure un libro in cui un fatto reale si inserisce nel flusso di una narrazione di finzione, ma sentiamo che Vasta vuole comunicarci un segreto. Lo stesso sentimento muove gli altri due volumi da cui siamo partiti. Allora viene da chiedersi qual è il segreto che contengono al loro interno? Ovvero qual è la storia che questi libri vogliono raccontarci?

Prima di rispondere, faccio qualche passo indietro, guardo altri libri che sono nella mia libreria e noto su uno stesso scaffale altre letture di quest’anno: La scuola cattolica di Edoardo Albinati (Rizzoli), L’uomo del futuro di Eraldo Affinati (Mondadori), La preghiera della letteratura di Andrea Caterini (Fazi), La testa sul tuo petto di Eleonora Mazzoni (Edizioni San Paolo), Non è tutto da buttare di Alessandro Zaccuri (La Scuola).

Prendiamo La scuola cattolica: a tutti gli effetti ci troviamo davanti a un romanzo, così recita anche la dicitura posta dall’editore sulla copertina. In realtà non è così: il libro di Albinati non è solo un romanzo, ma è un testo molto più stratificato; in molti punti è un vero e proprio trattato di sociologia, in altre parti si sente lo sguardo dell’antropologo, di chi si cala in un universo per ripotarne usi e costumi; in alcune c’è lo storico del costume, in altre poi il cronista di nera alle prese con il racconto di un delitto. Il tono e i materiali che l’autore usa sono esorbitanti rispetto alla definizione di romanzo.

A ben vedere qualcosa di simile succede anche con L’uomo del futuro. È un romanzo? Una biografia di don Milani? Un reportage? Il testo è un insieme di queste cose, se da un lato a legare tutto è la vita del priore di Barbiana, dall’altra esistono momenti in cui il testo sembra un reportage alla ricerca di esperienze simili a quelle dell’autore di Lettera a una professoressa e in altre pagine poi la vita dell’autore e quella del suo oggetto di studio paiono coincidere fino a confondersi. Quello che viene da chiederci nel leggere questi libri è: quale “io” prende voce nella narrazione? Questa confusione di stili, di scritture è qualcosa di fecondo e mi pare che sia ancora più interferente e, quindi, interessante negli altri tre libri che citavo, ovvero quelli di Caterini, di Mazzoni e di Zaccuri.

Mazzoni per esempio dovrebbe raccontare la vita di Giovanni l’evangelista. Siamo quindi a pieno titolo nella biografia, anzi siamo in un genere ancora più codificato che è quello dell’agiografia. La lettura del suo libro, però, è spiazzante: assistiamo intanto a una duplice scelta narrativa, che toglie subito di mezzo l’imparzialità della ricerca scientifica. Abbiamo due “io” che si innestano. Da una parte la storia di Giovanni è raccontata in prima persona da lui stesso e dall’altra c’è la storia dell’autrice che racconta il suo rapporto con la fede e con l’evangelista, partendo dalla sua infanzia, dai nonni testimoni di Geova, dai suoi trascorsi in Comunione e Liberazione. Se qui l’interferenza è dichiarata, anche graficamente – i capitoli si alternano e sono identificati con corsivo e tondo – nel libro di Caterini essa è come uno sfarfallio, che ogni tanto si insinua.

In un certo senso il testo di Caterini è propedeutico al libro di Montesano, perché abitua il lettore a essere testimone di una lettura che non è semplicemente critica, ma è esperienziale. Nelle pagine di La preghiera della letteratura si avverte come la vita dello scrittore si modifichi nel momento in cui viene a contatto con alcuni testi e temi, come se poco alla volta l’uomo Caterini che inizia a scrivere il libro e l’uomo Caterini che lo conclude non siano la stessa persona.

Il libro di Zaccuri è forse quello che tra tutti è il più conforme alle regole. Il suo è a tutti gli effetti un saggio, anche se è un saggio su di un tema particolare, ma è soprattutto la sua scrittura a farmelo sentire diverso: il modo con cui argomenta e porge le questioni, il modo in cui le racconta e in cui risolve i problemi che mano a mano gli si propongono davanti, mi ha ricordato un libro di avventure. Leggere le scorribande di Zaccuri sul tema dell’immondizia mi ha fatto divertire proprio come un romanzo d’avventura, il cui scopo è far sì che il lettore «volga lo sguardo da» (è il significato etimologico). L’abbuffata che mi presenta Zaccuri nel suo libro è simile alla cena organizzata da Ferreri nel suo film, qualcosa di sontuoso, buonissimo, bellissimo – così come lo è la scrittura, l’arguzia, l’intelligenza del saggio – che però prelude alla tragica fine. Zaccuri come in un romanzo ci narra delle avventure bellissime per non farci vedere lo sfacelo in cui siamo gettati e di cui siamo, comunque, colpevoli.

Mentre guardo tutti questi libri, che ho riunito ora sullo scaffale, mi chiedo perché di colpo certi scrittori abbiano deciso di modificare quella struttura che comunemente chiamiamo romanzo. Nello stesso tempo mi chiedo perché a me interessi questa strana connessione, che forse solo io vedo, ma che più proseguo nel discorso più mi pare essere evidente. Credo che le ragioni siano diverse; alcune di esse sono più profonde e altre superficiali, partiamo da queste ultime che si riferiscono a due scrittori stranieri.

Il primo di questi è W.G. Sebald; la sua traduzione e la diffusione dei suoi testi, molte volte sfuggenti e inclassificabili, hanno modificato non poco il nostro modo di intendere il confine tra romanzo e saggio. In che modo dovremmo catalogare per esempio Austerlitz? Romanzo, saggio di architettura, biografia immaginaria, autofiction? Oppure prendiamo La storia naturale della distruzione? Possiamo definirlo come un semplice ciclo di conferenze sul tema della letteratura tedesca sulla seconda guerra mondiale? Siamo sicuri che questo basti? Lo statuto ambiguo delle sue forme narrative e la sua prosa secondo me hanno prodotto una sorta di tentativo di mimesi molto forte nel nostro panorama narrativo (mi pare per esempio che il libro di Vasta e quello di Montesano debbano qualcosa a questo autore e alle sue strambe peregrinazioni).

Il secondo scrittore è Emmanuel Carrère; lo scrittore francese soprattutto con Limonov, Vite che non sono la mia e L’avversario ha prodotto testi che hanno superato le tematiche dell’autofiction che erano state messe in crisi dai romanzi di Philippe Forest sulla morte della figlia. Nei libri di Carrère a dominare è l’“io” dell’autore che diventa misura di tutte le cose, che piega le storie che intende scrivere: non importa se devo scrivere di un oscuro e matto poeta russo o di uno sterminatore di famiglia e mentitore patologico, ciò che conta è trovare i punti di contatto tra la mia persona, la mia esistenza e le loro, così da fornire al lettore un cortocircuito, che è quello che poi spaventa e attrae chi legge.

Questo mi porta a rispondere alla domanda che ho lasciato volutamente in sospeso all’inizio e che quindi riprendo: quale storia vogliono raccontare questi libri?

Se dovessi rispondere brevemente, io direi che tutti questi libri mettono in scena il racconto di un “io” che si forma e si racconta. In tutti questi libri in maniera più o meno velata si mostra la storia di un “io che racconta” – narrano il formasi di una coscienza, il formarsi di un’ossessione, il proprio essere maschi adulti e violenti, il proprio essere abbandonati. Per questi motivi tematici mi pare che la forma romanzo diventi via via più ibrida e abbia bisogno di altre forme e generi. Eppure nel leggere queste forme di scrittura qualcosa ancora non mi quadra come se ciò che intuisco, non si esaurisse con la chiamata in causa di Sebald e di Carrère. Sento in questi libri che ho letto qualcosa di prepotente e di nascosto, che ha a che fare con la nostra tradizione.

Esiste una corrente carsica che ha prodotto una serie di testi in un certo senso stravaganti che possiamo vedere come anticipatori dei libri che ho preso in esame. Per esempio la narrazione che Guicciardini mette in scena nei suoi Ricordi non è estranea a questo tentativo di raccontare un “io” alla prese non solo con i fatti del mondo, ma con l’interpretazione stessa del mondo. Anzi proprio in quelle pagine, che sono la diretta trasformazione dei libri contabili dei mercanti fiorentini, abbiamo la prima idea di un modo di raccontare sé, che esula dai due grandi canali comunicativi del tempo ovvero la lettera privata e la dedica del testo al mecenate di turno, luoghi del testo preposti a raccogliere la parte più autobiografica del testo.

Quelle di Guicciardini sono le prime parole private dette in pubblico (per usare un’espressione a me cara di Giulio Mozzi); per la prima volta il compito di un libro è narrare il farsi interiore di un “io”, un “io” che non è toccato da nessuna Grazia – prerequisito importante nell’antichità per chi volesse scrivere di sé, non a caso l’autobiografia è quasi sempre inizialmente una storia di una conversione (Agostino) o di una disgrazia (Abelardo) –, ma che racconta il suo prendere coscienza mentre è nel mondo e si occupa delle cose del mondo. Questo tipo di testo, che vivrà alterne fortune, è il precursore di tre grandi libri che in un certo senso sono la congiunzione con i testi succitati.

Il primo è Una vita di Vittorio Alfieri. Il testo di Alfieri non è una semplice biografia, ma segna nella storia della letteratura italiana qualcosa di diverso; ovvero l’idea che se la letteratura deve raccontare l’uomo, allora perché non produrre una spietata analisi su di sé, così da creare uno studio dell’animo umano (per mutuare le parole di Levi) assolutamente moderno e nuovo? Lo dice meglio di me, lo stesso autore nella sua introduzione: «Allo studio dunque dell’uomo in genere è principalmente diretto lo scopo di quest’opera. E di qual uomo si può egli meglio e più dottamente parlare, che di sé stesso? Quale altro ci vien egli venuto fatto di maggiormente studiare? Di più addentro conoscere? Di più esattamente pesare? Essendo, per così dire, nelle più intime di lui viscere vissuto tanti anni?»

Esistono, quindi, libri che per quanto bizzarri sono una strana commistione di diversi testi, che in maniera più o meno consapevole, sono stati pensati per diventare pubblici, testi che condividono con il libro di Montesano, ma anche con quelli di Caterini o di Albinati, la caoticità, la durata nel tempo, il mescolamento di generi, in cui si accumulano come un regesto materiali più eterogenei. Penso allo Zibaldone e a Il mestiere di vivere. Credo che la filiazione ultima dei testi che ho cercato di analizzare stia in queste due opere. In entrambe si intravedono le due tensioni che abbiamo descritto in Guicciardini e Alfieri; la storia dell’“io” e lo studio dell’uomo; in più sono due libri che ne contengono altri, che non sono mono-toni, né mono-tematici: assolutamente moderni e contemporanei ai nostri giorni e forse per questo pensati come postumi (questo è quasi certo per Il mestiere di vivere, ma credo che anche Leopardi pensasse per il suo Zibaldone un possibile esito pubblico, tipo quando concepisce l’abbozzo della Storia di un anima). C’è una correlazione stretta tra la forma del romanzo e l’“io” che narra e diventa via via il protagonista delle pagine. E non è un caso se Montesano nella sua introduzione, e anche nel corso del libro, dedichi molte pagine a Rimbaud, scrittore che più di altri ha intuito la potenza deflagrante della parola “io” e del suo legame con l’alterità. Quando si mette in scena l’“io” – e mi rendo conto ora che i romanzi di cui ho parlato operano tutti in questo ambito – le strutture narrative vengono forzate con una torsione molto simile alla manomissione sintattica insita nella frase «Je est un autre». Questa frase a leggerla bene, anche solo dal punto di vista grammaticale, è una sfida di senso e di logica, che ci ricorda come lo sforzo di raccontare l’“io” sia così prepotente da mettere in crisi ogni tipo forma di racconto.

I libri presi in esame certificano questo legame stretto tra la storia dell’“io”, il suo mostrarsi e le modificazioni delle strutture del testo, in cui concetti come saggio, biografia, autofiction risultano fuori luogo, perché agli autori interessa non codificarsi in un genere, ma utilizzare qualsiasi risorsa pur di riprodurre il movimenti che l’“io” fa nel momento in cui prende coscienza di sé.

A questo punto il mio breve excursus sarebbe finito, però credo che serva una piccola postilla per spiegare questo desiderio di tassonomizzazione. Credo che in fin dei conti sia solo un altro modo di ragionare sul ruolo dello scrittore e del lettore; è un tentativo di affermare che l’essenza più intima della critica letteraria sta nell’essere “un esame di coscienza”. Ritorna forse nell’accidia dei giorni, indeciso tra il continuare a scrivere o il non produrre più nulla, l’idea e lo stupore provati leggendo Il quinto evangelio di Mario Pomilio o Petrolio di Pier Paolo Pasolini, ovvero avvertire l’illuminazione che la ricerca di definire cosa sia la letteratura sia molto più semplice di quello che si pensi. La letteratura è qualcosa di scritto, che possiede in sé la capacità di modificare le percezioni che abbiamo di noi e del mondo. Se dovessi trovare un paragone con qualche altra attività umana direi che la letteratura è un lungo esorcismo rispetto al male che subiremo e a quello che faremo.

Cosa sia questo esorcismo, caro lettore che hai avuto la pazienza di seguirmi fino a qui, io non lo so, o meglio non lo so spiegare con parole mie. Mi vengono in aiuto alcune pagine di Ricordi tristi e civili, in cui Cesare Garboli racconta della messa funebre celebrata da Paolo VI per la morte di Aldo Moro. Garboli vede nella preghiera di Paolo VI a Dio qualcosa di simile a un esorcismo verso un male che per quanto terreno e mortale ha devastando un intero paese, un male politico e sociale che di colpo mostra la sua natura più profonda e abissale. Lo scrittore, guardando un uomo morente che prega disperato per l’amico morto, sente qualcosa di oscuro, avverte distintamente di essere arrivato, contemplando quell’accadimento, a un punto di non ritorno. Il sentimento di Garboli è qualcosa di diverso dalla semplice disperazione della bestia ferita, è anzi qualcosa di lucido, chiaro e nitido. È qualcosa di orrendo, ma da cui non puoi sottrarti. È una sorta di possessione. Ecco la letteratura deve produrre questo non ritorno, questa scomodità, deve – per dirla con Kafka – far capire al lettore che «da un certo punto in là non c’è più ritorno. È questo il punto da raggiungere».

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