“La Grande A”
di Giulia Caminito

Un esordio narrativo che parte dalle radici

di / 13 gennaio 2017

Giulia Caminito è nata appena un anno al di qua. Un anno prima della morte del Muro, quello maiuscolo e acuminato. Un anno prima che la fortezza si sfaldasse e che i suoi frantumi vorticassero per anni come spine innominabili. Un anno prima che il Mondo si slacciasse, il suo doveva ancora cominciare. Eppure, quella che ha sprigionato nel suo primo romanzo, datata, polverosa e smaccatamente intercontinentale, è proprio la sua storia. La Grande A (Giunti, 2016) è un baule rovesciato. Un gomitolo di voci, incontri, partenze, snocciolato dalla fumosa Legnano fino al midollo d’Africa. Fatto a forma della sua famiglia.

E proprio da quel guscio lombardo, da lì si avvia la vicenda di Giada. Dagli scoppi del cielo sotto la guerra. L’odio che gronda, la terra che si spancia per farsi rifugio. Lei è una ragazzina in un corpo di ossa mal rivestite e non può che scappare mentre i nemici bombardano la notte. Ci si comprime finché l’allarme non cessa, finché non spuntano i liberatori, o quelli che amano farsi chiamare così. Ma niente diventa più facile solo perché i tetti non si sventrano.

Giadina vive con sua zia perché la mamma è lontana, oltremare a inventarsi un mestiere e lei e i suoi fratelli distribuiti in giro come arnesi ingombranti. Intrasportabili. Non ci sono premure, né avanzi di carezze. Solo pane nascosto, insaccato sotto il maglione, raffermo come gli sguardi di casa e trafugato come un divieto. Giadina è Cenerentola, marginale e fastidiosa nel suo esserci scheletrico. Non le resta che attendere, sua madre Adele come fosse un principe: «Lei ogni pomeriggio guardava dalla finestra oltre il cortile, aspettando un clacson in lontananza, profumo francese, vestiti a colori e pacchi di biscotti». Solo quel ritorno sarebbe stato primavera. E un giorno la mamma si riaffaccia, con le sue incandescenze e i suoi vapori di tabacco, risucchiando Giada nel capitolo centrale del romanzo, trapiantandola nella Grande A.

Quell’Africa etiope retaggio coloniale, dove ha aperto un bar, dove tutto è distante dagli scampoli di tende e ceramiche che Giada vagheggiava tra i suoi stenti di Legnano: «La cucina a carbonella era vecchia e puzzava pure da spenta, fatta di latta e piena di bozzi […] Non c’erano altri odori, se non quelli della latrina e del sudore forte della donna che veniva a pulire».

Giada fatica, anche lì, affiancando la madre, servendo clienti. Finché non spunta Giacomo, che la sposa di corsa, quando il matrimonio per lei è una nebulosa di mosse imperscrutabili. Si consacra a un estraneo, con un abito che pizzica, come la vita che sta per indossare. Suocera e cognata a berciare doveri, a tracciare solchi. Le incombe tutto sul fiato, anche quel figlio che non sa come accudire. E poi i doveri coniugali e Giacomo che si pavoneggia nel suo dopobarba, che ha bisogno di piacere al punto di scegliere un’altra. È lì che Giada matura davvero. Col dolore avvinghiante di chi è ancora deposto nell’angolo.

La solitudine allenante la confronta con se stessa, con un volto che non sia suo marito, con un sospeso che affanna i risvegli. E comunque tutto cambia ancora, per tornare a essere com’era. Matrimonio ricomposto e finalmente più di qualche agio. Stoffe sagomate sulla sua figura, apparizioni al Circolo e tavoli da gioco.

All’improvviso però l’Africa non è più sicura, la guerriglia scompagina la quiete. «Trent’anni di storia etiopica si accasciarono, pantano di sangue, e con loro Selassié salutò i polmoni del suo Impero».

Per Giada c’è di nuovo l’Italia e un freddo che sembrava archiviato. Ma la sua stella fissa, la vera assoluta Grande A rimane sempre Adi. Donna di frontiera, amazzone impavida in un mondo di uomini forti e femmine accucciate. Ogni atto del ricominciare la vede sempre stagliarsi sullo sfondo, come la carne di un orizzonte: «Non poterla raggiungere, isola remota, quel sentirsi sempre diversa, in difetto, stare un po’ indietro a tirare le tende per aprire il sipario mentre la Mamma saliva sul palco».

A incorniciare l’adorazione di nonna Giada per sua madre, lo iato solenne di quella distanza e un trancio robusto di trascorso italiano, c’è la scrittura dell’autrice-nipote, un ricamo sul corredo delle proprie origini. Variopinta, vivace e fotografica. Una fontana scrosciante d’immagini a condire una vicenda di per sé già avventurosa, in cui sono proprio le donne a scandire ogni tempo.

Il bisogno di trasformare le memorie in romanzo, di farne storia per gli altri, di rendere pagina un coro d’infanzia valorizza tutta la narrazione, in cui si ripescano reperti, odori fossili, scatti che appartengono al nostro cordone.

E brava Giulia, che di anni da scrivere ne ha ancora parecchi per raccontare, magari, anche un po’ di futuro.

 

(Giulia Caminito, La grande A, Giunti, 2016, pp. 288, euro 14)

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LA CRITICA

Per il suo esordio letterario Giulia Caminito parte dalle radici, proponendo una storia personale e familiare tutta al femminile. Con due vigorosi esempi di donne di cui farsi testimone. E soprattutto erede.

VOTO

7,5/10

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