“Silence”
di Martin Scorsese

La ricerca di Dio passa dal suo silenzio

di / 13 gennaio 2017

Poster italiano di Silence su Flanerí

Forse Silence è il film più personale e sofferto nella gloriosa carriera di Martin Scorsese. Una produzione lunghissima, interrotta più volte da una serie di problemi tra cui una causa legale con Cecchi Gori (addirittura) e con un cast che ha visto passare Daniel Day Lewis, Benicio Del Toro, Ken Watanabe, Gael Garcia Bernal, prima di fermarsi su Andrew Garfield, Adam Driver e Liam Neeson. Quasi trent’anni di lavoro per portare sullo schermo la storia – in parte vera – di due gesuiti nel Giappone del XVII secolo.

Scorsese ha scoperto Silenzio, il romanzo di Shūsaku Endō da cui è tratto il film (e a cui aveva già lavorato il regista giapponese Masahiro Shinoda, portandolo a Cannes nel 1971), dopo una proiezione riservata alle gerarchie ecclesiastiche di New York di L’ultima tentazione di Cristo, nel 1988. Il film ha iniziato a prendere forma, in fase di scrittura, già negli anni immediatamente successivi. Il regista di Taxi Driver sentiva molto vicina la storia del viaggio interiore dei protagonisti alla ricerca di Dio nella sua assenza. A mancargli,nel tempo, è stata la convinzione di essere maturo a sufficienza per affrontare in maniera compiuta il tema. Fino al 2016.

Silence inizia nel Portogallo del 1633. Due giovani gesuiti, padre Garupe (Driver) e padre Rodriguez (Garfield) partono per il Giappone alla ricerca del loro padre spirituale, padre Ferreira (Neeson), di cui si sono perse le tracce da anni. Una lettera, ritrovata su un mercantile, afferma che Ferreira abbia abbandonato la fede cattolica e viva con una moglie secondo i costumi giapponesi. I due preti si mettono in mare per cercare di salvare l’anima del maestro dall’apostasia (l’abbandono della fede) raggiungendo un Paese in cui i cattolici sono perseguitati e sottoposti a torture di vario livello di abiezione. Nella loro ricerca, Garupe e Rodriguez mettono a rischio la loro vita e tutte le loro convinzioni.

Tutto il cinema di Scorsese può essere letto come un’unica, prolungata, ricerca, sul senso dell’uomo nel mondo. La formazione cattolica del regista italo-americano, passata anche per un periodo in seminario, ha lasciato un’impronta profondissima nella sua visione dell’umanità e della solitudine esistenziale. Scorsese si interroga in ogni ogni suo film sulla presenza di qualcosa, o qualcuno al di sopra, come un occhio che osserva dall’alto senza mai intervenire.

Questa indagine sulla trascendenza è più che mai evidente in Silence, terzo capitolo di una trilogia ideale iniziata nel 1988 con L’ultima tentazione di Cristo e proseguita nel 1997 con Kundun. Il tratto comune di questi tre titoli di vocazione “spirituale” è la centralità della dimensione umana del rapporto con il divino. Nel 1988 la tentazione da cui doveva difendersi Cristo era quella di una vita normale così come gliela mostrava il diavolo nei quaranta giorni nel deserto. Niente croce, niente sacrificio, ma una moglie, dei figli, un lavoro. Kundun, invece, mostra l’umanità dell’ultimo Dalai Lama partendo dall’infanzia e attraverso la storia del Tibet.

In Silence, la fede alimenta ogni azione dell’uomo in una convinzione unidirezionale. La presenza del divino si manifesta nella sua continua assenza, nel silenzio – appunto – di Dio che sembra abbandonare i protagonisti anche nei momenti più difficili. La religiosità è un rapporto individuale e univoco con l’assente, che va al di là dei luoghi e delle istituzioni per dimorare all’interno. È questo quello che sembra dire Scorsese, che ha anche scritto il film con Jay Cocks. Il padre Rodriguez di Andrew Garfield è il primo a dubitare dei dogmi della formazione gesuita nel momento in cui si trova a doverli applicare alla realtà dei fatti. Gli esercizi spirituali nella cella del monastero sono una cosa, autorizzare un gruppo di contadini giapponesi a calpestare l’immagine di Dio per salvare la vita è tutto un altro discorso. È attraverso padre Rodriguez che la ricerca nel silenzio si svolge fino in fondo. Passando per il dubbio, la rabbia, la follia, Rodriguez vive una passione personale che lo porta a un’identificazione delirante con Cristo. Interrogando il silenzio, capisce la natura umana della fede.

Animato da gigantesche intenzioni di riflessione, Silence mostra probabilmente nella forma più compiuta mai raggiunta dal cinema l’interiorità della religione. Per farlo, Scorsese si è affidato alla lentezza, alla dilatazione dei tempi, a un passo che si adatta più al pensiero che all’azione. Questa esposizione per accumulo finisce per indebolire il carico narrativo del film. In cabina di montaggio Scorsese avrebbe potuto rinunciare ad almeno altri venti minuti di film per scendere al di sotto delle due ore e quaranta attuali (si dice che la prima versione superasse abbondantemente le tre ore complessive). È lecito affermare che anche il percorso spirituale di Rodriguez ne avrebbe giovato in coesione e compattezza.

Se si può rimproverare la muta prolissità, Silence va elogiato anche per la qualità estrema della messa in scena, dalla scenografia sontuosa di Dante Ferretti, che ha ricostruito il Giappone del ’600 a Taiwan, alla fotografia nebbiosa di Rodrigo Prieto. Scorsese come regista conferma di vivere, alla soglia dei settantacinque anni, un periodo di immensa ispirazione. Andrew Garfield (di cui magari si può discutere il capello cotonato in pieno tormento) e Adam Driver restituiscono la visceralità del dubbio e del tormento scolpendo i loro colpi nella magrezza.

(Silence, di Martin Scorsese, 2016, drammatico, 161’)

  • condividi:

LA CRITICA

Trent’anni di lavoro e riflessione hanno portato Martin Scorsese a Silence, il film che forse più di altro nella storia riesce a rendere la dimensione umana della fede sul grande schermo.

VOTO

7,5/10

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio