“La prima verità”
di Simona Vinci

Una storia che parla di passato, di infanzia e di pazzia, tra realtà e finzione

di / 28 aprile 2017

Non è facile mettersi nei panni dei matti. Coglierne le fisime, i ragionamenti, le ossessioni e quei lampi di lucidità durante i quali la realtà viene filtrata da una solida dose di raziocinio. Matto è chi rifiuta per scelta di rientrare nei discutibili criteri della normalità, e per questo vaga nello spazio anarchico e oltreconfine dell’anomalia. E matto è anche chi non viene ammesso alla corte dei “sani di mente” dalla maggioranza degli inclusi, e chi, per scherzi della genetica o episodi scombussolanti, ha un cervello che funziona secondo regole non convenzionali.

Con La prima verità (Einaudi Stile libero, 2016), opera vincitrice del Premio Campiello 2016, Simona Vinci ha voluto approfondire da diverse prospettive la follia umana, inscenando, attraverso ricordi presi dall’infanzia, articoli di giornale, fotografie, frammenti di un viaggio in Grecia, una storia che ha per protagonisti i fantasmi. «Se dico che è una storia di fantasmi è perché io ai fantasmi ci credo. Mi attengo all’accezione originaria della parola, quella greca, phantasma da phantazo: io apparisco, faccio vedere. I fantasmi sono presenze che hanno la capacità di apparire a proprio piacimento, che persistono al di là dello spazio e del tempo e con la loro presenza-assenza inquietante mettono in guardia, usano la paura che riescono a incutere per impartire una lezione: ciò che è stato può essere di nuovo, dovunque, in qualsiasi momento. Il passato non si seppellisce e non si decompone, ma continua a vivere, con la sua eco a volte dolorosa e distruttiva dentro quelli che vengono dopo».

Il libro riapre una parentesi dimenticata, costringe una realtà torbida e malcelata a ritornare alla luce e forza i lettori a prenderne atto. E lo fa per scongiurare la tendenza a seppellire, dimenticare, dissimulare atteggiamenti ed episodi di pazzia sotto un velo di vergogna, senza considerare che anche ciò che non ci piace torna a visitarci, negli incubi o nelle memorie.

Per questo una gran parte del romanzo è dedicata al manicomio di Leros, una struttura psichiatrica in cui sono stati internati per decenni dissidenti politici e pazienti con disturbi mentali più o meno seri, abbastanza isolati su un lembo di terra del Mar Egeo perché la loro condizione non disturbasse né destasse scandalo. Quando, nel 1989, John Merritt e John Wildgoose pubblicarono sul The Observer il loro reportage su quel luogo, imponendo un’azione alle istituzioni che fingevano di ignorare l’infernale situazione dei suoi 1300 reclusi, anche il resto del mondo fu costretto a indignarsi.

L’autrice evoca Leros attraverso i personaggi che l’hanno abitata: da Stefanos, ispirato alla figura del poeta Jannis Ritsos, lì esiliato durante la dittatura dei colonnelli, a Teresa che non sapeva leggere, a Nikolaos che teneva sassolini bianchi in bocca. Ma l’isola greca si fa metafora dell’abitudine umana a scacciare i fantasmi, a non ascoltarli mentre bussano alla porta e a tentare di soffocarli quando riescono a sfondarla. Dalla terra brulla cosparsa di ulivi, eucalipti e capre la narrazione si sposta a Budrio, alla vita privata di Vinci e ai matti che ha conosciuto, condividendo racconti che alternano realtà e finzione letteraria in dosi che non ci è dato conoscere.

Lo stile cade – forse un po’ troppo spesso – in un lirismo affettato che dà pesantezza alla scrittura, ma è pur vero che per un lettore reticente ad affrontare gli spettri la drammaticità è un alleato prezioso. Sofferto, delicato e spietato insieme, La prima verità è un romanzo per chi ama gli approfondimenti, le inchieste, le stranezze della psiche umana, ed è pronto a fare i conti con il dolore.

 

(Simona Vinci, La prima verità, Einaudi Stile libero, 2016, pp. 408, euro 20)
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LA CRITICA

Un po’ autobiografia, un po’ narrativa, un po’ inchiesta, La prima verità è un’opera a strati che racconta il mondo dei matti mettendo in discussione il comune concetto di normalità.

VOTO

6,5/10

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