“Grande Era Onirica”
di Marta Zura-Puntaroni

Un solido esordio

di / 10 luglio 2017

Grande Era Onirica (minimum fax, 2017) è il romanzo d’esordio della giovane marchigiana Marta Zura-Puntaroni: romanzo-confessione, narrazione in prima (e unica) persona, prosa impressionista, ambientazione senese (nell’accezione tozziana del termine).

La Grande Era Onirica, anzi le grandi Ere Oniriche, le stasi mentali che costituiscono l’argomento delle narrazioni episodiche, diaristiche, del romanzo; non però in forma di scene ben definite, ma sempre circoscritte in un soliloquio della voce narrante che accosta vari eventi, vari piani temporali, franti, in una sorta di continuo flusso di coscienza che non si ferma mai. È un tono gelido e distaccato quello che racconta, che accosta sogni, riflessioni, azioni, assorbendoli in un’opacità inquietante che aliena il lettore dalla vicenda, come uno psicofarmaco, appunto, o l’alcol, o altre fra le tante sostanze con cui la protagonista, Marta, si inibisce/(de)finisce.

Marta giovane, laureata, di famiglia più che benestante; i suoi problemi non derivano dall’esterno: come per la narrazione, è tutto all’interno. E all’interno c’è la depressione, il disturbo borderline, lo spaesamento. Un rapporto insano con sé stessa e con l’altro sesso. L’immagine, distorta, di sé, che proietta fuori, rendendo la propria vita un bozzolo atemporale, com’è la prosa, atemporale, lontana, congelata in un presente-assente che ben si adatta alla protagonista in quanto non partecipa.

Non partecipa, Marta: il suo destino sembra già segnato, il suo commentare i fatti una rassegnata, annoiata spiegazione, che comprime anche le reazioni emotive in un discorso indiretto che non si sfilaccia dall’esposizione degli eventi della voce narrante.

E gli eventi sono soprattutto le relazioni di Marta, il modo in cui si esplica attraverso i rapporti sociali, e ancora di più i rapporti sessuali, che non sono altro che la traduzione, apatica, disinteressata, di sé stessa – il proprio disagio, il proprio problema col maschile – nel linguaggio fisico della comunicazione con l’Altro (lacaniano?), il professore più grande, il padre che non la ama (non nel modo giusto, almeno), l’uomo (che qui forse andrebbe scritto con la maiuscola) che la sovrasta, anche fisicamente, come nell’emblematica scena d’apertura del romanzo.

Una serie di uomini che diventano simboli che diventano definizioni, definizioni di e per Marta, e come le droghe, o meglio, gli psicofarmaci che scandiscono il ritmo della sua vita, anche gli uomini passano, muoiono, tornano in sogno, l’accompagnano sempre con la loro presenza, poi con la loro assenza, e sono personaggi effettivi di quello che non possiamo che chiamare romanzo di formazione, essendo Marta, in qualche modo, ancora informe.

Un primo romanzo già maturo, meditato, che prende di petto il solipsismo tipico degli esordienti e ne fa non un punto di forza, ma direttamente una struttura portante, senza cercare facile rifugio nell’umorismo, che qui è totalmente, drammaticamente assente: non c’è un attimo di respiro dalla claustrofobia di una narrazione che potrebbe ricordare la confessione di Alex Portnoy, da cui però si distanzia: non punta all’autobiografismo e non cerca di eludere la propria natura.

Ciò che resta è una voce unica, in tutti i sensi: sola, ma anche inimitabile; un personaggio unico, escluso da tutto, escluso dalle stesse vicende che narra (le subisce e non le assimila: la morte del Primo, l’abbandono del Poeta, la sudditanza verso l’Altro), com’è escluso il lettore, tenuto a distanza dalla vaghezza della confessione, intesa qui nel senso pseudo-religioso di confessione psicanalitica (“religione della parola”), che non si richiama che a sé stessa, non dipinge alcuna scena con contorni precisi.

Non c’è finale e non c’è forse salvezza, «la domanda resta», c’è solo accettazione, forse rassegnazione, nelle parole che chiudono il libro: il superamento della ristrettezza egoica della protagonista che riconosce che le Ere Oniriche «tanto, in un modo o nell’altro, le hanno un po’ tutti quanti».

 

(Marta Zura-Puntaroni, Grande Era Onirica, minimum fax, 2017, pp. 180, euro 16)
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LA CRITICA

Uno stile già  riconoscibile, una tessitura coerente che riesce a catturare il lettore e restituirgli la particolare visione del mondo della protagonista.

VOTO

7,5/10

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effe

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