Se il delirio forgia il mondo a sua immagine

“Le nuvole” di Juan José Saer

di / 23 novembre 2017

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È un afoso luglio di fine ventesimo secolo quando Pichón Garay – mentre aspetta lo storico amico Tomatis – riceve un floppy disk su cui Marcelo Soldi ha copiato il testo di un misterioso manoscritto: non si sa con certezza se sia un’opera autentica o di finzione, non se ne conosce il titolo ma, valutandone il contenuto, Soldi decide di chiamarlo Le nuvole.

Le nuvole è anche il titolo dell’ultimo romanzo pubblicato in vita da Juan José Saer (1937 – 2005), uscito in Argentina nel 1997 e portato in Italia vent’anni dopo nella traduzione di Gina Maneri per laNuovafrontiera.

I nomi dei personaggi citati poco sopra potrebbero suonare familiari al lettore di Saer, già incontrati forse tra le pagine di L’indagine e di Cicatrici: in questo nuovo romanzo compaiono solo nell’antefatto, per introdurre, con un classico espediente metaletterario, la storia principale.

Il contenuto del floppy è la trascrizione del diario del dottor Real, uno «specialista nelle malattie che colpiscono non il corpo ma l’anima», che dall’Argentina si reca a Parigi per conoscere un nuovo approccio alla cura delle malattie mentali, ben lontano dalla contenzione fisica del paziente. Allievo del dottor Weiss, Real comprende che i pazzi sono sì un fascinoso dilemma per la psichiatria più all’avanguardia, ma costituiscono in primo luogo un problema per le famiglie d’origine.

Tornato in patria insieme al suo mentore, all’inizio del XIX secolo inaugura con lui una Casa di Salute in località Le tre acacie, poco a nord di Buenos Aires, forse il primo istituto del genere in territorio americano: si tratta di una struttura innovativa a partire dall’architettura, senza celle di isolamento né strumenti di tortura, ispirata al modello del convento, delle accademie filosofiche e del giardino di Epicuro.

In poco tempo la Casa si riempie di degenti da ogni parte del continente, inviati soprattutto dalle famiglie più agiate che vogliono liberarsi dei propri pazzi per non vedere compromessa la propria reputazione agli occhi della società.

Di solito i pazienti vengono portati direttamente alla porta del centro, ma nel 1804 giungono al sanatorio quattro richieste simultanee da regioni diverse: si decide di trovare un punto d’incontro in una località che si trova a metà strada tra i luoghi di provenienza dei malati e Le tre acacie.

«Nulla sembra troppo caro e nessuno sforzo eccessivo quando si tratta di sbarazzarsi di un pazzo, perché è difficile trovare qualcosa a questo mondo che generi più disagio, così grazie agli sforzi congiunti delle quattro famiglie, una delle quali era per essere più precisi una comunità religiosa, si riuscì a organizzare un ospedale ambulante di cui io sarei stato una specie di direttore durante la traversata del deserto».

Il viaggio attraverso la pianura deserta è al centro della memoria di Real: il percorso scelto dura un mese abbondante, in condizioni difficili da sopportare per chiunque, ancor più per anime già perturbate. A essere imprevedibili sono sia le condizioni climatiche, sia le reazioni dei pazzi; il deserto, già di per sé ostile, lo diventa maggiormente nella convivenza forzata tra malati, indios, donne di malaffare, gauchos, soldati e animali. Se a ciò si aggiungono le calamità naturali, con un caldo torrido inaspettato – una specie di estate anticipata di san Giovanni –, la Tormenta di Santa Rosa e un incendio imprevisto, si comprende come l’avventura si trasformi presto in una spedizione metaforica sulla nave dei folli nel mezzo della Pampa, che è prima di tutto un cammino nei territori della malattia mentale, spesso preclusi ai sani.

Nelle varie tappe da Santa Fe a Buenos Aires, immersi nella natura selvaggia e inospitale del Río Paraná, si incontrano cinque pazzi: il giovane Prudencio Parra, che concentra tutte le energie vitali nel pugno costantemente serrato, in una strenua lotta interiore che si manifesta nella tensione del corpo; Troncoso, l’insonne irrequieto, che manifesta i tipici sintomi della mania; Suor Teresita, una religiosa caduta in preda a deliri mistico – sessuali, convinta di poter fare convergere l’amore divino con quello carnale con chiunque incontri sul suo cammino; infine i fratelli Verde, che manifestano la difficoltà di comunicazione in due modalità differenti: il maggiore, Juan, passando da silenzi profondi a conversazioni veementi, costituite da una sola frase ripetuta all’infinito; il minore, Verdecito, esprimendosi attraverso pernacchie, grugniti e versi di ogni genere.

Costantemente a contatto con una follia che non può essere giudicata con il metro della morale né considerata con le usuali categorie del pensiero, ci si rende conto che al centro di tutto sta il linguaggio, ora troppo approssimativo e non aderente alla realtà, ora protagonista della retorica con cui le famiglie dei malati cercano di giustificarne l’internamento, ora – invece – l’unica guida in grado di fare luce nell’incertezza della selva del mondo.

Mentre le nuvole si stagliano minacciose all’orizzonte, si gusta la perfezione della ricca prosa di Saer, che con un periodare tipicamente sudamericano anticipa fatti per poi indugiare in digressioni e particolari, in un gioco in cui il lettore è costantemente stuzzicato e condotto nell’illusione mutevole dei sensi.

«Con il caldo, il silenzio della campagna vuota sembrò aumentare, come se tutte le specie che la popolavano, incapaci di muoversi, giacessero esauste e in letargo. Anche noi, che pretendevamo di regnare su tutte loro, eravamo come intorpiditi, uomini e donne, civili e soldati, credenti e agnostici, eruditi e analfabeti, sani di mente e pazzi, resi tutti uguali da quella luce accecante e quell’aria ardente che ci abbrutivano e, riducendoci alle stesse languide sensazioni, cancellavano le nostre differenze».

Per quanto si galoppi, l’orizzonte sembra sempre lo stesso: nella monotonia della pianura, si dimentica anche il motivo del viaggio, si perde la nozione che separa l’interiore dall’esteriore, la sanità dalla follia, gli uomini dagli animali, al punto che il delirio sembra una primizia portata nel grigiore del mondo normale, l’unico elemento in grado di riscattare l’animo umano dall’indifferenza della terra.

Se in passato con altri romanzi, soprattutto Cicatrici, si era occupato di scardinare il genere poliziesco, con Le nuvole, Juan José Saer offre una parodia del romanzo d’avventura, quasi un western – indigeni compresi – a dimostrare che la letteratura è ricerca ed evoluzione costante della forma.

 

(Juan José Saer, Le nuvole, trad. di Gina Maneri, laNuovafrontiera, 2017, pp. 184, euro 16,50)
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LA CRITICA

Un viaggio apocalittico nel deserto, luogo reale ma soprattutto metafisico, alla scoperta della realtà e delle possibilità di raccontarla.

VOTO

7,5/10

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