Tra resilienza e democrazia
"Venti lezioni. Per salvare la democrazia dalle malattie della politica" di Timothy Snyder
di Elisa Carrara / 30 marzo 2018
Leggendo Venti lezioni. Per salvare la democrazia dalle malattie della politica di Timothy Snyder (Rizzoli, 2017, titolo originale On Tyranny) viene presto in mente l’ammonimento dell’economista francese Jacques Attali: per sopravvivere ai tempi difficili occorre mettere in atto delle precise strategie, individuali e collettive. Le sue “sette lezioni” di vita hanno rivelato un’umanità fragile, perennemente in bilico tra il bisogno di radicarsi in certezze ctonie e l’esigenza di imparare a convivere con l’instabilità. La crisi, declinata nelle sue molteplici forme, costringe gli individui a compiere continuamente delle scelte.
Sulla difficoltà decisionale Barry Schwartz scrisse il suo The Paradox of Choice. Why More is Less (Harper Collins, 2004), dimostrando quanto le infinite possibilità siano in realtà solo illusioni, capaci di imprigionare gli uomini in un mondo di «insoddisfazione» e immobilismo. L’abbondanza di scelta crea, secondo lo psicologo americano, una paralisi nelle azioni individuali: paradossalmente più possiamo scegliere, meno siamo in grado di farlo. L’apparente e assoluto controllo del sé e dell’identità, si rivela, perciò, un desiderio illusorio e frustrante.
Eppure, secondo Timothy Snyder e le sue Venti lezioni, esistono delle scelte necessarie a salvare la democrazia stessa, o quantomeno ad evitarne pericolose derive escatologiche. Il rifiuto dell’inevitabilità della Storia è la prima scelta da attuare ed è racchiuso nella massima che apre il libro: «la Storia non si ripete, ma insegna». Meno di 200 pagine per ricordare quanto le scelte individuali siano l’elemento essenziale della vita politica attuale. Il totalitarismo è, secondo Snyder, una minaccia tuttora presente, dimenticata dalle sue stesse vittime, ma non per questo meno reale.
Sulla capacità di resistere a un attacco, Attali ha dedicato un intero paragrafo del suo Sept leçons de vie. Survivre aux crises (Fayard), in cui spiegava l’importanza della pianificazione di strategie di reazione rapide. Resistere ad una catastrofe, o non soccombere a un dolore, attivano in noi gli stessi meccanismi difensivi. La resilienza descritta da Attali assume nel libro di Snyder, quasi la forma di un imperativo: «resistete» ci ammonisce il professore di Yale, perché solo così si può spezzare «l’incantesimo dello status quo». Il disagio dell’anticonformismo, che spesso si trasforma nella dolorosa solitudine della ribellione, è necessario alla rottura del potere tirannico: scegliere consapevolmente di essere eccezioni rispetto alla regola dominante, significa anche scegliere di sacrificare parte della propria felicità presente, in funzione di un futuro in cui le azioni inconsuete saranno, forse, riconosciute. Gli esempi di uomini resilienti citati da Snyder, vanno da Curchill a Rosa Parks e Teresa Prekerowa: forme ben diverse di resistenza, ma accomunate, forse, dal potere della scelta e del coraggio.
«Un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi» diceva Kafka e Timothy Snyder sembra parafrasarlo quando ci esorta ad abbandonare il punto di vista di internet per rifugiarci nella letteratura, arma contro il mare immobile che è al di fuori di noi. La riflessione sul presente, in parte ostacolata da mezzi di comunicazione unidirezionali o peggio, apparentemente bidirezionali, è viziata dal conformismo del linguaggio, dall’accettazione di un vocabolario comune, capace di creare una perfetta illusione identitaria. Se tutti ripetono le stesse parole e usano lo stesso linguaggio, allora tutti cominceranno a credere che esista un’unica verità. Non basta più indignarsi (come suggeriva Hessel): occorre leggere. Snyder rispolvera i grandi classici da Orwell a Philip Roth, da Dostoevskij a Camus, con incursioni nella saga di J. K. Rowling e nella poetica di Kundera. Non mancano lavori meno conosciuti al grande pubblico, come Il potere dei senza potere di Václav Havel (1978) o The Uses of Adversity di Timothy Garton Ash (1989).
Non basta leggere nelle nostre comode case: Snyder ci tiene a precisare che fare politica non significa solo affidarsi alla teoria, bensì metterla in pratica quotidianamente. Le nostre identità politiche sono plasmate dalle idee, ma anche dai nostri corpi: qualunque atto di resistenza o di ribellione, infatti, necessita della sua concretizzazione nella forma esteriore.
A svelare le complesse relazioni tra corpo e potere fu Michel Foucault, quando mostrò i modi in cui la politica usa e controlla i corpi umani, reazione ed eredità della cultura francese che della sovrapposizione tra corpo e potere si è nutrita fin dall’assolutismo. La politica, avverte Foucault, si appropria della vita, delle emozioni e del corpo, come la Rivoluzione francese si era impadronita della morte e delle sue estensioni materiali e simboliche.
Le emozioni sono, perciò, tanto necessarie alla politica della ribellione, quanto lo è la loro rimozione da parte del potere tirannico: la dissoluzione del pathos e del logos attuata dal totalitarismo, può essere combattuta, secondo Snyder, solo attraverso la coscienza della loro esistenza: esportare corpi ed emozioni al di fuori dei propri luoghi, significa dare forma alla ribellione.
(Timothy Snyder, Venti lezioni. Per salvare la democrazia dalle malattie della politica, Rizzoli, 2017, pp 144, € 17.00)
LA CRITICA
Timothy Snyder, storico di Yale, ha racchiuso le debolezze del mondo contemporaneo coniugando cultura e politica in un libro capace di parlare a tutti. Un piccolo manuale per riconoscere la crisi della democrazia e sopravvivere alle sue insidie.
Comments