Boundless, una chiamata dal passato

Il nuovo album dei Long Distance Calling

di / 11 aprile 2018

copertina di boundless su flaneri

«Nothing that makes this world a better place lasts for only three minutes. Nothing of relevance embraces you and abruptly leaves afterwards. Music does not need to be divided into five minute long chapters, verse-chorus-verse. Music needs room, not rules, it needs freedom, not boundaries».

Queste sono le parole poste in apertura della biografia che accompagna Satellite Bay (2007), l’album d’esordio dei Long Distance Calling. E probabilmente non è un caso che il titolo dell’ultimissimo progetto della band tedesca – Boundless  – ricalchi in maniera così didascalica queste affermazioni che si presentavano come una sorta di dichiarazione di intenti. Ricostruendo la rete intertestuale, è quasi inevitabile inquadrare questo ultimo album come sanzione di quelle parole che, oggi come allora, esprimono la volontà di preservare una coerenza di etica e di estetica.

Formatisi nel 2006 a Münster, i Long Distance Calling sono tra i maggiori esponenti di quella che potrebbe essere definita la seconda ondata del post rock. Questa categoria – e tale fenomeno interessa in realtà molti artisti ad essa riportati – risulta fuorviante e forse inutile per comprendere appieno il sound, mutevole eppure riconoscibile, di una band che, seppur ascrivibile a un genere, conserva una forte identità. Fin dai primi Satellite Bay (2007) e Avoid the Light (2009), i Long Distance Calling si sono inseriti inequivocabilmente nello scenario post-rock, mantenendosi però in una zona liminare. Hanno esplorato questo territorio fino ai confini in cui sfuma nel post-metal, nel progressive e oltre. Ma come per tutti i pionieri, le cose devono andare avanti a un certo punto.

Dopo i ripetuti tentativi di apertura al vocale – con le collaborazioni con John Bush (ex Anthrax) e Jonas Renkse (Katatonia) – e la più coraggiosa svolta con The Flood Inside (2013) e Trips (2016) in cui vi sono dei vocalist a tutti gli effetti (Marsen Fischer e Petter Carlsen), i Long Distance Calling riportano – forse definitivamente – la formazione al quartetto di partenza. Segnano una nuova inversione di tendenza, tornando sui binari di un’espressività interamente strumentale. Nel racconto-intervista di Benedikt van der Spaans, utilizzato come comunicato stampa per l’uscita di Boundless, alla domanda «You have tried to expand your sound cosmos with full-fledged vocalists. Why this reduction back to your instrumental core competence as a quartet?» , la band risponde: «We always write the albums in a room with four of us. That’s why it always sounds like us, the core doesn’t get lost […]. We worked very intuitively. Someone starts, and something develops from this. This way, you achieve an enormous sonic scope – and you can hear that on Boundless».
E di fatto, nonostante le iniziali perplessità rispetto all’apparente passo indietro, è lo stesso Van der Spaans a sostenere che «se Boundless suonasse come qualcuno, allora suonerebbe come i Long Distance Calling».

Alla luce di un percorso musicale piuttosto diversificato, Boundless sembra testimoniare una macroscopica ringkomposition che paradossalmente racchiude il sentore più di un preludio che di una chiusura. Le sonorità delle origini vengono continuamente richiamate ma sono immerse in un’atmosfera che in qualche misura le contraddice, e quella che dovrebbe essere una riprova del passato allo stesso tempo porta in sé il dubbio di trovarsi in realtà di fronte a una parziale palinodia, a un’affermazione che dà l’impressione di poter essere smentita in qualsiasi momento.

Si può dire che la stessa economia di Boundless rifletta questa carriera frastagliata in un LP di natura erratica ma indubbiamente organica. C’è ancora la propensione, propria del post-rock, a plasmare paesaggi sonori attraverso dei crescendo dal timbro mistico e atemporale, ma è affiancata da sonorità dirette e secche, con riff di forte impatto e un palm muting penetrante. Le granitiche chitarre distorte sono inframezzate da interludi e riprese dal tono più intimistico.

Fin dall’inizio si ritrovano gli elementi peculiari dei Long Distance Calling, ma per quanto ravvisabile la cifra stilistica appare diversa. L’opening è emblematico da questo punto di vista. A differenza di altre aperture come “Jungfernflug”, “Out There” – di fattura non paragonabile agli apici passati – compie un processo inverso. Il brano segue una dinamica ingannevole, crea la sensazione di una tipica apertura a crescendo, ma è una aspettativa che viene disattesa quasi subito. Pur riproponendo molti stilemi della band, “Out There” cresce in brevissimo climax per poi implodere all’improvviso, diradando tutti i riferimenti che ormai non sono più tali.

E così tutto l’album dà l’impressione di non poter prevedere il successivo sviluppo, anche se l’andamento è a tratti involuto. Nel cupo clima di “In the Clouds” si intersecano sintetizzatori, ritmiche elettroniche e slide di reminiscenza gilmouriana, sul cui sfondo emergono chitarre aggressive e un groove incalzante. “Like a River” è intessuta di lontani echi blues e di richiami al western, calati in un sound – per così dire – interplanetario, quasi a figurare una cavalcata nello spazio.

Tra le tracce spicca “On the Verge”, di respiro carico e intenso che si arricchisce di fraseggi e bending nello stile floydiano, sostenuti da riff massicci che si innestano su un incastro ritmico di Janosch Rathmer (batteria) e Jan Hoffmann (basso) particolarmente avvincente. E in chiusura “Skydrivers”, che conclude l’esperienza con un breakdown dalle tinte black metal.

In definitiva, Boundless non si può considerare un album pienamente riuscito. L’impasto sonoro, nell’insieme efficace, è talvolta svilito da momenti di stagnazione, e in fin dei conti soltanto pochi brani si distinguono per autentico valore autonomo, mentre altri si nutrono più del pregio di una macrostruttura complessivamente convincente.

Tuttavia i Long Distance Calling sono riusciti a rilanciarsi, riattirando l’interesse degli affezionati al loro peculiare stile, perfettamente riconoscibile fin dalle origini e forse un po’ annacquato nei lavori più recenti. La singolare reinvenzione dei LDC si traduce in una riedificazione attraverso materiali preesistenti, si fonda su ciò che è stato questo gruppo e ciò che nel frattempo è diventato, revitalizzandone la spiccata specificità che negli ultimi anni aveva perso in parte la sua spinta propulsiva.

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LA CRITICA

Grazie a un album efficace ma non del tutto convincente, i Long Distance Calling riconfermano la propria autorità nello scenario post rock. Boundless si pone come inizio di un processo di reinvenzione e come promessa di un ritorno ai vertici qualitativi che in passato la band ha raggiunto.

VOTO

7,5/10

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