Modelli di eremitismo moderno

“Il manuale dell’eremita” di Vittorio Giacopini

di / 28 febbraio 2019

Copertina di Il manuale dell'eremita di Vittorio Giacopini

Ammesso che oggi, nell’attuale era postmoderna a industrializzazione avanzata, sia ancora possibile sottrarsi totalmente alle influenze di una società sempre più schizoide a livello umano e capillarmente pervasa dalla cultura narcotizzante dell’alta tecnologia, quali potrebbero essere le strategie da adottare, quali gli itinerari da seguire e in quali luoghi incontaminati potremmo, infine, rifugiarci?

Se per caso state attraversando un momento di crisi esistenziale e vi state ponendo domande del genere, questo piccolo libro dal titolo semplice e suggestivo, Il manuale dell’eremita di Vittorio Giacopini (edizioni dell’asino, 2018), attirerà inevitabilmente la vostra attenzione. Ma se vi aspettate di trovarvi prescritta l’ennesima rivisitazione in chiave moderna del modello classico, oramai divenuto cliché, di eremitismo inteso come allontanamento dal mondo, isolamento forzato dagli uomini e tensione verso la riconquista della sfera spirituale nell’eremo di qualche sperduta montagna, rimarrete sicuramente delusi.

Si tratta bensì di una raccolta di episodi biografici di alcune tra le figure più emblematiche del Novecento, scrittori e filosofi del calibro di James Joyce, Ludwig Wittgenstein e Malcolm Lowry, artisti e musicisti come George Méliès e Bob Dylan. Quindi sembrerebbe lecito domandarsi: perché questo titolo? Cos’hanno a che fare questi personaggi tutt’altro che religiosi e, di sicuro, non adepti di qualche dottrina ascetica o mistica, con la figura dell’eremita?

Ebbene, prescindendo appunto da ogni connotazione dottrinale e religiosa, le esperienze di eremitismo descritte dall’autore ci mostrano come, nel nostro tempo, sia ancora possibile prendere le distanze dal mondo – sia come atto di volontà, sia perché indotti dalle circostanze – e mettersi momentaneamente da parte, sottraendosi così al giogo della Storia e alla tirannia dell’“attuale”.

Ci fanno vedere, inoltre, come sia possibile abitare dimensioni strettamente individuali senza necessariamente dissociarsi dai propri simili – «si perde sempre quando si sta isolati», diceva Van Gogh – tracciando delle “mappe” alternative del tutto personali, sfuggendo così alle reti tentacolari della società e creando altri mondi “fuori dal mondo” aventi vita propria, o ancora scoprendo “sottomondi” invisibili a uno sguardo che sfiora solo la superficie della realtà quotidiana.

Attraverso la scansione di alcune tappe della vita dei personaggi, come lo spegnersi delle luci della ribalta accompagnato dal grigiore dell’ultima parte della vita di Georges Méliès (l’«eremita urbano»), l’esilio volontario di Joyce a Roma o il tortuoso cammino di una missione che non è una missione, di Fernand Deligny, possiamo ritrovare noi stessi insieme all’essenza di ogni biografia: un divenire che rispetta determinate tempistiche, diverse per ciascuno, e scandito da un “prima”, un “dopo”, un “quando”, ma anche da un “non ancora”, e che appartiene, come scrive l’autore, alla «Storia di tutti, semplicemente», cioè «un luogo, un tempo, il ronzio di un’atmosfera diffusa, cioè un destino», tutto ciò «è parte di quello che siamo, o diventiamo. È qualcosa che ci plasma, o ci ha plasmato».

Vittorio Giacopini accompagna i suoi eroi nelle loro vicende con viva partecipazione, quasi sostituendosi a essi e dando voce diretta agli stati d’animo, alle angosce, alle riflessioni sugli scacchi amari subiti e il conseguente anelito al ritiro dal mondo che li accomuna, il tutto narrato in un tono mai solenne, a tratti spassosamente semiserio, altre volte cinico, ma in ogni caso umano.

Non si trasmette nessuna morale da predicare, nessuna lezione da imparare, non si fornisce nessun farmaco per lenire i mali dello spirito. In queste pagine traluce solamente una sorta di filosofia pratica, atta ad affrontare il mestiere di vivere nei suoi momenti culminanti e nel loro conseguente declino, ma soprattutto nello scorrere dei giorni qualunque – zone d’ombra, tratti di strada piana dove la tortuosità sarebbe in fin dei conti preferibile alla monotonia. Fasi in cui la vita, apparentemente quieta e indifferente, continua invece senza sosta a pulsare, ora seguendo ritmi sincopati, ora regolari, ma che sempre cova dentro qualcosa che, al momento opportuno – non prima – si saprà se sia un nuovo inizio o la fine.

La regola aurea sembra allora consistere solo in un dogmatico e perentorio: «Vade ultra!», inserito in un contesto, quello della vita e del suo divenire, che sembra refrattario a qualsivoglia metodo o regola prescrittivi: «Non c’è niente da insegnare e nessuno da educare, veramente, e l’unica strategia – o stratagemma – è lasciarsi portare dalla corrente, andare a rimorchio».

Per concludere, a mio parere, il più rappresentativamente compiuto – sulla falsariga tematica tracciata dall’autore – nonché di maggiore spessore e a tratti toccante, è il capitoletto dedicato alla vita di Fernand Deligny , il più lungo della serie, quello in cui Giacopini descrive le fasi, ma soprattutto le stasi – quei momenti di sospensione intrisi di amletiche riflessioni sulla propria identità, dove si è costanti solo nel rigetto di definizioni e attributi imposti dall’esterno – che sembrano indispensabili per fare sì che, in seguito, il motore della storia personale riprenda a girare.

 

 

(Vittorio Giacopini, Il manuale dell’eremita, edizioni dell’asino, 2018, pp. 228, euro 14)
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LA CRITICA

Il manuale dell’eremita presenta una raccolta di capitoletti in cui si ritraggono biografie di alcuni degli artisti più importanti del Novecento, accomunati da esperienze episodiche o veri e propri stili di vita all’insegna di un eremitismo moderno che, calandosi nella vita quotidiana, attraversa le correnti del mondo, del tempo e della storia.

VOTO

8/10

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