In quell’angolo di storia dove non fa mai luce

“Notte a Caracas” di Karina Sainz Borgo

di / 9 luglio 2019

copertina di Notte a Caracas di Karina Sainz Borgo

Sotto il cielo di Caracas colano suppliche, come acqua piovana. Si prega, si prega sempre di più. Negli articoli di diversi inviati dal Venezuela post-Chavez, apprendiamo che la gente invoca senza sosta un’insalata di nomi e di spiriti. Chi sceglie Gesù, chi Maometto, chi Shango, il dio della virilità. Perché laddove la politica avvizzisce, ammalando rami e frutti, diventando più invisibile di ciò che non possiamo provare, allora germogliano altri volti, un santuario multietnico di culti che cominciano a sembrare tangibili, compagnie assicurative ultramondane per preservare il popolo da tutto il buio in terra. Se cibo, luce e farmaci scarseggiano, non resta che nutrirsi di fede. Anche verso chi interroga i fondali di caffè.

In questo scenario di potere al collasso, di lotta selvatica per un solo tozzo d’aria, pulsa il romanzo di Karina Sainz Borgo, Notte a Caracas (Einaudi Stile Libero, 2019).

Nata nel 1982 e residente da anni a Madrid, l’autrice raccorda biografia e narrazione, snodando un timbro di grandine, un delirio che allaga, anche adesso che si ripara dai detriti. Come specifica il testo nella sua nota finale: «Alcuni episodi e personaggi sono ispirati a fatti reali, ma si discostano dalla realtà con una vocazione letteraria, non testimoniale».

Difficile decretare cosa sgorghi più dall’incubo. I Figli della Rivoluzione hanno rovesciato il governo, sono il tamburo del sangue eversivo, promettono il nuovo e portano il marcio, l’odio randagio e impunito che spazza via ogni regola. Codificano un sistema impazzito, di ruberie e scorribande sotto il segno della loro giustizia. In questo clima sbrecciato Adelaida Falcόn sotterra sua madre, recidendo l’unico legame che non la condannava a pendere nel vuoto.

Quella donna, col suo stesso nome addosso, col destino di schegge cucito negli occhi, la ancorava al terreno, pioggia e linfa del suo fremere nel mondo: «La mia famiglia eravamo mia madre e io. Il nostro albero genealogico cominciava e finiva con noi. Insieme formavamo un giunco, o una specie di aloe vera di quelle che riescono a crescere ovunque. Eravamo piccole e piene di venature, quasi innervate, forse per non soffrire se ci strappavano un pezzo o anche tutta la radice».

Ognuna di loro non aveva che l’altra per non soccombere e la morte di una spariglia a entrambe le ossa. Le seppellisce tutte e due, a profondità diverse.

Adelaida resta sola, figlia senza figli e senza passato, tutta proiettata a sganciarsi da un teatro in rovina. Il suolo sta franando, fuori e dentro la corteccia. Un giorno si allontana da casa e al suo rientro la ritrova occupata, inaccessibile, come il suo esile corredo di oggetti domestici. Libri, piatti, stoviglie sommesse di un tempo estinto, cose piccole e superstiti a cui non ha diritto. Sminuzzate, ridotte alle briciole, esattamente come lei.

La Marescialla e le sue scagnozze, guardiane farcite di guerra e di grasso, amministrano l’orrore, vendono al mercato nero provviste destinate ai poveri, furoreggiano e minacciano, costringendola a rifugiarsi altrove, nello spazio che qualcun altro ha lasciato sgombro. Adelaida s’infila nell’appartamento di Aurora Peralta, inquilina del suo palazzo defunta da poco, perché lì i decessi sono come gli starnuti, improvvisi e frequentissimi, risposte del sistema immunitario di fronte a un vivere impossibile.

Aurora, con la sua storia dismessa, rimasta appesa assieme al cappotto, le concede una seconda scelta. E l’evasione prende corpo. Il suo che ne indossa un altro. Quella tana ancora calda accoglie una rinascita incisa in un cadavere. Anche Adelaida, che è una costola infossata, che per metà è inumata nella salma di sua madre, deve poter morire del tutto, abbandonare la propria identità per far posto a una speranza. Cambiare vita, documenti, Paese, approfittare della nazionalità di Aurora e provare a salvare quello che il disastro sembra aver risparmiato. E poi trapiantarlo lontano. Partorire una partenza. E non pensarci troppo.

Nel “cane mangia cane” del Nuovo Ordine Imposto non c’è respiro elargito alle remore. Saltare subito, saltare senza rete e, forse, poter dire “domani”.

Un romanzo appuntito, da maneggiare consapevoli delle ferite conseguenti. Avvicinarlo solo per decidere di non avere scampo. Karina Sainz Borgo mette al centro il dolore femminile, come spesso fa Marcela Serrano, ci invischia in un contesto di conflitto, come accade anche con Almudena Grandes. Ma c’è dell’altro. Karina Sainz Borgo scrive pugnali, non lenisce, non stempera, non abbassa la fiamma di nessun disagio. Lo fa divampare, scottando ciò che serve. Nella sfilata di altri titoli raccolti, capaci di raccontare l’ustione della fuga sulla pelle di una donna, come La ragazza con la valigia di Sanda Pandza, Il transito di Anna Seghers o La ragazza dai sette nomi di Hyeonseo Lee, qui geme la potenza di una lingua crudele e fulminante, sempre più rara. Che trasforma la lettura in un incontro fatale.

«La nostra vita, mamma, è stata piena di donne che spazzavano per mettere ordine nella loro solitudine. Donne in nero che spremevano foglie di tabacco e spostavano con una pala i frutti caduti e spaccati a terra durante la notte. Io, in compenso, non so come togliere la polvere. Non ho cortili né manghi. Dagli alberi della mia via cadono solo bottiglie rotte. Non abbiamo avuto cortili, mamma, e non te ne faccio una colpa. Di notte, e a volte in mezzo all’oscurità, pettino con una scopa la mia terra, fino a farla sanguinare».

Almeno questo. La preghiera di un romanzo eccellente è stata esaudita.

 

(Karina Sainz Borgo, Notte a Caracas, trad. Federica Niola, Einaudi Stile Libero, 2019, pp. 208, euro 17, articolo di Cristiana Saporito)
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LA CRITICA

Distopico e realistico, possente e doloroso, il romanzo di Karina Sainz Borgo offende di bellezza e crudeltà. Il Venezuela allo sfascio e l’urgenza di una singola vita che sgoccia tra le sue crepe.

VOTO

9/10

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