La guerra è un piano sequenza
Come la forma esalta il contenuto: la lezione di Sam Mendes
di Emanuele Pon / 30 gennaio 2020
«Dedicato al maggiore Alfred Mendes, che ci ha raccontato le storie»: questa è la frase posta in calce a 1917. Non potendo sapere con certezza se Alfred avrebbe apprezzato il lavoro di suo nipote Sam Mendes, che dirige il film, formuliamo un’ipotesi: il maggiore sarebbe orgoglioso del modo in cui la sua testimonianza è stata utilizzata. Missione compiuta per Sam Mendes, dunque, che centra tutti i suoi obiettivi.
Non in un’unica direzione si muove infatti 1917: si tratta di un film capace di inserirsi a pieno titolo nel solco di un genere ben definito come il war movie, ma anche in grado di allargare quello stesso solco, ritagliandosi uno spazio di manovra ed un tono propri, una entusiasmante libertà che altri registi, in precedenza, avevano solo tentato di raggiungere.
Con implacabile circolarità, 1917 offre allo spettatore una finestra di circa 24 ore su uno degli anni peggiori della Grande Guerra, teatro di alcune delle battaglie più terribili del conflitto.
È il 6 aprile, e il caporale Blake scuote il soldato al suo fianco, appoggiato ad un albero con gli occhi chiusi: sarà il suo compagno per la missione che gli è stata assegnata. I due dovranno farsi strada nella terra di nessuno fino alle linee nemiche, superarle e attraversare la cittadina di Ecuste, per portare al Secondo Devon – 1600 uomini, tra i quali milita il fratello di Blake – un ordine diretto del generale: sospendere l’attacco previsto per l’alba del 7 aprile, poiché il battaglione sta per cadere in una trappola.
È a questo punto che 1917 prende il via, per non fermarsi più: è il caso di considerare la corsa contro il tempo dei due soldati semplici come, letteralmente, un dipanarsi; un arrancare, nel fango e tra i cadaveri, che non può essere fermato. Il senso del movimento che traspare dalla visione del film è quello dell’avanzata: disperata, inesorabile, costellata di momenti di stasi labile; del tutto cieca, come soltanto la guerra, e nella fattispecie la guerra di logoramento, sa essere.
La forza del film di Mendes risiede nella volontà di far scontrare idee di cinema differenti: il coraggio è stato quello di girare un film eminentemente tecnico, che però mai avrebbe dovuto risultare tecnicistico, pena una distanza che un war movie non si può permettere.
Molto si è già scritto e letto a proposito dell’utilizzo, nel film, del piano sequenza. Vale la pena ricordare, però, che la tecnica non è estranea al cinema di Mendes, essendo già stata sperimentata negli ultimi due film di 007, Skyfall (2012) e Spectre (2015).
Inoltre, va tenuto presente che già un’altra opera recente, Birdman di Inarritu (2014), aveva deliziato gli spettatori e l’Academy con l’illusione di un film senza stacchi.
Perché, allora, l’uso del piano sequenza in 1917 colpisce così tanto?
È innegabile che l’utilizzo di questa tecnica sia la caratteristica preponderante del film: non tanto perché esso sia costituito da un’unica sequenza senza tagli di montaggio – che infatti, a ben vedere, ci sono: sono solo genialmente “nascosti” –, quanto per il particolare valore che l’espediente registico assume.
Questo è il colpo di teatro di Mendes: utilizzare un significante specifico per veicolare un ventaglio di significati che, come in ogni grande storia, trascende il mezzo attraverso cui è espresso, per restare nella mente. In altre parole: raramente, negli ultimi anni, un film si è caratterizzato per la sovrapponibilità di forma e contenuto come 1917, in cui la tecnica non solo è al servizio della storia, ma ne diventa il dispositivo di trasmissione principale.
Molti hanno accostato 1917 ad un suo illustrissimo predecessore nella categoria war movie, ossia Salvate il soldato Ryan di Spielberg (1998). Il paragone è scorretto sotto molti punti di vista.
Prima di tutto, non è un caso che Spielberg abbia scelto di occuparsi della seconda guerra mondiale, e Mendes abbia optato per la Grande Guerra: il secondo conflitto porta con sé, inevitabilmente, un bagaglio di retorica che quello del ‘14-’18 non avrà mai.
Da questa prima grande differenza, derivano tutte le altre: Salvate il soldato Ryan è un film epico, magniloquente, animato da nemici della libertà e da eroi che si sacrificano per essa, pure con il volto di grandi attori (Tom Hanks su tutti); 1917 è un film non scarno – giacché la tecnica è preminente – ma secco, non crudele né troppo sanguinolento, ma crudo e implacabile, anche quando lirico. Un film che parla di due soldati qualunque, talmente spersonalizzati che il nome del protagonista – Will Schofield – si arguisce solo alla fine. Un film dove i grandi nomi (Colin Firth, Benedict Cumberbatch per citare i maggiori) compaiono per lo spazio di un cameo, o poco più.
L’opera di Mendes risulta di una bellezza difficile ma mai cervellotica: a rendere la visione positivamente estenuante è proprio l’utilizzo del piano sequenza (all’apparenza) unico, che trascina lo spettatore nel film, lo rende un terzo soldato nel fango, e ci dice che, se vogliamo la guerra, dobbiamo vedere tutto, perché la guerra non è fatta di tagli di montaggio.
Questo principio è ciò che differenzia 1917 dall’altro grande titolo a cui è stato paragonato: Dunkirk di Nolan (2017). Quest’ultimo spiccava per la precisa volontà del regista di piegare, per così dire, i canoni estetici (e non) di un genere cinematografico al proprio (cerebrale) modo di fare cinema: un meccanismo, del resto, al quale Nolan ci aveva già abituati in altre occasioni, da The Prestige a Inception.
In 1917 si assiste al movimento opposto: Mendes mette le sue idee e la sua sapienza registica al servizio del war movie, con le sue regole.
Il risultato è una tecnica del tutto funzionale alla narrazione, una forma che si fonde con il contenuto senza ovattarlo, e senza essa stessa perdere forza.
Così, assume l’importanza che merita – da manuale di tecnica cinematografica – la corsa espressionista di Schofield per fuggire da Ecuste, tra il ralenti, l’incedere della musica, le ombre dei ruderi e le luci dei flare.
Così, il piano sequenza (e la guerra) non ci lascia(no) un attimo di respiro e tragicamente, alla fine ci riporta(no) al punto di partenza: Schofield si appoggia ad un altro albero con gli occhi chiusi, è passato solo un giorno, 24 ore qualunque nella guerra.
(1917, di Sam Mendes, 2019, guerra 118’)
LA CRITICA
Una scommessa vinta, quella di 1917: un film destinato a diventare una pietra d’angolo del war movie, un metro di paragone imprescindibile, proprio per la sua eccezionale, e non gratuita, carica innovatrice all’interno di un genere che può ora intraprendere nuove strade.
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