Susan Sontag: Abbandonare l’innocenza
“La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini 1964-1980”
di Elisa Carrara / 20 febbraio 2020
Prima di leggere il secondo volume dei diari di Susan Sontag, La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini 1964-1980 (nottetempo, 2019), occorre fare un piccolo esercizio di stile, più difficile di quanto si possa immaginare: eliminate dalla vostra vita qualunque malsano ideale di perfezione, allontanate le immagini belle, le parole rassicuranti, gli oggetti inutili, le cose non essenziali. Tentate di sviscerare le questioni, di non inorridire di fronte alle cose brutali e squallide; di non voltare la testa quando vi troverete nel bel mezzo di un conflitto o faccia a faccia con la fragilità e la stupidità.
Perché entrare nella vita di Susan Sontag significa abbandonare l’innocenza del pensiero o la comodità dell’effimero: ogni cosa, infatti, acquista un peso, una densità, diviene tangibile, per poi dissolversi nuovamente e liberarsi dall’ossessione della materia. As Consciousness is Harnessed to Flesh è il titolo originale di questi appunti, raccolti dal figlio David Rieff: e dispiace aver perso nell’edizione italiana la forza della parola carne, addolcita da quel corpo. Un corpo scomodo, imperfetto, fragile, a volte non amato, capace di godere, soffrire, ammalarsi, e in perenne conflitto con la coscienza; ne parlerà ossessivamente per tutta la vita, fino a diventare il nucleo delle sue speculazioni filosofiche. Capire è forse l’unica salvezza degli uomini e Susan Sontag coltiva questa straordinaria, irresistibile ambizione, al punto da costringersi ad analizzare ogni cosa. Non c’è evento, sensazione, pensiero che non venga scritto e compreso.
Faticosamente. Perché scrivere è un atto complesso, che la condanna a pesare le parole, a curarne la forma, non perché siano belle, ma perché siano esatte, significative. In questi appunti, densi e taglienti, non c’è traccia di un’estetica vuota, ma di una precisione quasi severa, di una tensione continua e costante a sovrapporre forma e contenuto. «Se non posso giudicare il mondo, devo giudicare me stessa. Sto imparando a giudicare il mondo», scrive il 1° novembre del 1964. Non è indulgente Susan Sontag, soprattutto quando si tratta della sua vita privata: «Da scrittrice tollero l’errore, la prestazione insufficiente, il fallimento. Che importa allora se a volte fallisco, se un racconto o un saggio non funziona? Altre volte le cose vanno davvero bene, l’opera funziona. E ciò mi basta. È proprio questo l’atteggiamento che non riesco ad assumere rispetto al sesso. Non tollero l’errore, il fallimento, perciò sono ansiosa fin dall’inizio, ed è più probabile che fallisca». Sembra di ritrovare la Susan del primo volume (Rinata. Diari e taccuini 1947-1963, nottetempo, 2018): insicura e desiderosa di impossessarsi della sua scrittura e quindi della sua identità. Ma se allora la gioventù la costringeva a una faticosa opera di costruzione del sé, ora i bisogni sono radicalmente diversi: decostruire, svelare, togliere, anche a costo di mostrare la carne viva, i lati oscuri, le debolezze quasi infantili. Ciò che stupisce è la varietà di questi appunti: liste di libri da leggere, elenchi di film, riflessioni su sé stessa («Nei miei confronti, predomina l’intolleranza. Mi piaccio, ma non mi amo»), sul suo corpo, sul perché porta i pantaloni, sul suo lavoro («Sapevo-so-di avere una buona mente, una mente persino potente. Sono brava a comprendere le cose – + [sic] a dare loro un ordine – + a usarle. (La mia mente cartografica.) Ma non sono un genio. L’ho sempre saputo»).
E ancora: analisi sul complicato rapporto con la madre, citazioni di Lenin, appunti su Gadda, sul concetto di noia, su Moravia, sulla guerra del Vietnam, su Wittgenstein, Kant, Hegel, Kafka; parole nuove, annotate con lo stupore e il rigore di una studentessa, appunti di viaggio, frammenti politici, suggestioni psicoanalitiche. Disarmanti le considerazioni sulla maternità e sulla presenza salvifica di suo figlio David, essenziale per capire davvero con che spirito avvicinarsi al mondo intimo della Sontag. Resterà deluso chi cercherà in queste pagine solo la lucidità del suo pensiero: la scrittura diaristica, infatti, ci insegna che occorre sempre fare i conti non solo con le debolezze umane, ma anche con l’idea che non sia mai possibile trovare la verità. La scrittura personale ha spesso il difficile compito di colmare vuoti, costruire, analizzare, unire, placare conflitti o crearne di nuovi. E quella di Susan Sontag non fa eccezione.
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