La proiezione del mondo che è dentro di noi
“Permafrost” di Eva Baltasar
di Chiara Gulino / 19 maggio 2020
Permafrost di Eva Baltasar (Nottetempo, 2019) è un romanzo viscerale e riflessivo. Un estenuante flusso di coscienza, di pensieri e confessioni, segue il ritmo cantilenante di un “io narrante” emotivamente instabile e a tratti sproloquiante.
Con urgenza drammatica (Baltasar è una poetessa), in cui ricordi dolorosi e pensieri di morte trovano ampio spazio, l’autrice lavora sulla materia dell’umano esistere, sulle sue miserie e sulle sue rare meraviglie (dagli innamoramenti all’affetto per la piccola nipote).
In questo libro, Baltasar parla della sua vita, del suo essere una donna fragile e insicura, del suo essere fisiologicamente incompatibile con il mondo, del suo sentirsi esclusa da tutto e da tutti, specialmente per i suoi orientamenti sessuali. Con le donne di cui si innamora il contatto è ustionante, a volte drammatico, altre volte, nega sé stessa facendosi ombra con le sue amanti.
La protagonista, alter ego della scrittrice, ha sempre la sensazione di vivere fuori centro e fuori tempo: «A ventitré anni credi che sia troppo tardi per tutto. Solo a quaranta ti accorgi che sei ancora in tempo, se non proprio per tutto, almeno per quello che ti sta a cuore».
Eva è la rappresentante di una generazione che stenta a trovare il suo posto all’interno della attuale società liquida, dove tutto è destinato alla rapida obsolescenza, comprese le emozioni, e al tempo stesso ha un modo tutto suo di criticarla. La sua personale forma di protesta sarebbe, nelle sue intenzioni, boicottare la vita con il suicidio, il cui pensiero la sfiora a più riprese, ma la cui realizzazione è frenata, ora dal timore grottesco dei tragici esiti che il suo gesto potrebbe provocare (lanciandosi dal balcone, ad esempio, potrebbe schiacciare un gatto che, ignaro, si trovasse a passare in quel momento proprio lì sotto), ora dalle bizzarre giustificazioni e scuse che dà a se stessa per differirlo.
Ma per Eva morire, più che iniziare veramente a vivere, diventa un imperativo categorico: «Non che io voglia morire, io devo morire! È la mia certezza. La vita appartiene agli altri, l’ha sempre fatto.»
L’ironia diventa qui uno strumento di salvezza. Lo stile leggero e ironico con cui Baltasar mette in scena il suo “io” scorticato, provocatorio e diviso, è puntellato da battute caustiche, senza mai cedere ai toni cupi. Ne emerge un amaro fondo autobiografico, quello di un personaggio femminile disadattato e inquieto, risentito nei confronti della famiglia d’origine, in particolare della madre.
Per difendersi dalla durezza della realtà, quando si rende conto di star perdendo la propria anima, Eva frappone fra sé e gli altri una corazza, il permafrost del titolo, che la allontana dalle cose e dal coinvolgimento del mondo: «Il dubbio, la crepa attraverso cui si infila il calore del mondo, sfrontata violazione del permafrost.»
Al centro del romanzo ci sono la psicologia umana e un’idea tragica dell’esistenza come una costellazione di piccoli o grandi drammi quotidiani. La felicità è un lungo, rischioso e spesso infruttuoso viaggio alla ricerca di sé: «Nella mia persona abitano perennemente delle inquiline in fedecommesso: la figlia, la sorella, l’amica, l’ex studentessa universitaria, la vicina, la lettrice, la zia, la proprietaria, la cliente, l’utente, la persona sicura, quella insicura, ecc. Tutte queste barbare convivono e rivaleggiano con la lesbica che è in me».
Permafrost è la proiezione di una psiche allucinata ma anche della pluralità dei mondi che abitano dentro ciascuno di noi.
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