Storia di una famiglia di bestie selvatiche

“L’unica notte che abbiamo” di Paolo Miorandi

di / 1 giugno 2020

Copertina di L'unica notte che abbiamo di Miorandi

Il bagaglio personale di un autore è sempre fondamentale nella scelta dei temi da trattare e anche, probabilmente, nel modo in cui li trattano. Così deve essere per Paolo Miorandi, scrittore e psicoterapeuta, che già in Verso il bianco (Exòrma, 2019) si era occupato di arte e fragilità psichica raccontando la vita di Robert Walser, tra i più importanti poeti e scrittori svizzeri, che trascorse i suoi ultimi ventitré anni in un ospedale psichiatrico.

Con uno sfondo diverso ma solo in apparenza, anche il suo nuovo romanzo, L’unica notte che abbiamo (Exòrma, 2020) tratta un tema simile, nel suo svolgere la storia di una famiglia con una «fragilità nervosa» che mina sul nascere ogni tentativo di stabilità, che impedisce a ognuno di essere famiglia per gli altri.

«Sono più che convinta che gran parte dell’esistenza di noi sventurati sapiens sapiens consista nel tentativo, il più delle volte fallimentare, di guarire dagli influssi perniciosi e dalle devastanti patologie provocate dai morbi che si annidano e ingrassano nei focolari domestici».

È da questa urgenza che sembra emergere il romanzo, un racconto corale in cui le voci dei protagonisti si mescolano e si confondono: la voce narrante senza nome e quasi senza storia, che raccoglie una vicenda a lui estranea per via del semplice espediente narrativo dell’incontro con una vicina di casa; la signora stessa, un’anziana solitaria che trascorre i suoi ultimi anni a raccogliere documenti per «dipanare quel confuso groviglio di accadimenti che ha reso la storia della [sua] famiglia simile alla trama di un romanzo d’appendice»; e più di tutto i membri di questa famiglia «mezza matta» – i genitori, i nonni, le maestre che li hanno sostituiti, i complessi rapporti tra tutti loro, sullo sfondo di un Trentino profondo, fatto di valli fredde e di vino.

Fino a quando il racconto non diventa chiaro, è quasi difficile distinguere le parole, le voci, che si affastellano e rincorrono a formare l’affresco – a volte a tinte vivide, scabre, altre lievi di pastello – della saga familiare della protagonista. La storia si dipana per cerchi concentrici usando come base le tracce rimaste, fotografie soprattutto, a partire da cui le voci dei fantasmi dei morti e dei vivi si confondono, e allargando di capitolo in capitolo lo scenario desolante di sofferenze che scorrono nel sangue da un generazione all’altra.

A cominciare dalla nonna paterna, Elena, mai conosciuta e di cui non rimane che un’immagine, una ragazza sola a cui nessuno ha mai insegnato l’amore o il senso della famiglia, cresciuta «come una bestia selvatica assieme alle galline e ai conigli» e che come tale vive fino alla fine, spegnendosi «sola e lontana da tutti, nascosta sotto un lenzuolo giallognolo, senza tante manfrine, come si addice alle bestie selvatiche»: a lei appartiene la prima immagine, quella dell’Ernesto, il padre della protagonista, abbandonato ancora piccolo alla maestra della scuola di un paese su un lago, una donna austroungarica, di forti princìpi, l’unica possibilità per quel nucleo di famiglia di tenere la barra dritta.

Passando per il fratello più piccolo dell’Ernesto, Gioacchino, un erotomane scapestrato; la sua futura moglie, Georgette, una donna debole con vocazioni artistiche mai soddisfatte, figlia delle migrazioni del primo Novecento, cresciuta alle porte di Parigi da due genitori trentini che, nel momento di tornare al paese d’origine a neanche vent’anni, perde i punti di riferimento per non ritrovarli più – una donna incline alla depressione, al lamento, incapace di reggere l’urto della vita, una madre per cui la protagonista avrà fino alla fine parole di disprezzo. Fino ad arrivare alla protagonista stessa, soffocata tutta la vita da un pressante sentimento di vergogna.

Persone scontrose ed egocentriche, maltrattate dalla vita, che non conoscono altro modo di relazionarsi che maltrattare gli altri. Nel caso di Ernesto e Gioacchino, uomini che non cercano mai pietà né perdono, bestie incattivite dall’orgoglio e restie a essere addomesticate.

Personaggi che si avvicendano a raccontare lo stesso vissuto da prospettive diverse: c’è nel romanzo una continua vertigine di punti di vista, come se si girasse intorno a tutte le figure di questa famiglia di «male erbe» e le si guardasse da ogni lato per coglierne un’interezza. Perché nessuno è mai solo ciò che crede di essere, né ciò che un altro, anche la persona più vicina, vede, ma tutte queste cose insieme: siamo ciò che le nostre relazioni ci rendono, ciò che ci accade e come ci comportiamo davanti agli occhi degli altri, siamo il nostro sangue e ciò che decidiamo di farne, quanto decidiamo di assecondarlo.

E infatti Ernesto, che è indifferente alla sua famiglia in modo crudele e accetta solo la compagnia degli estranei dei bar, la sua unica casa, fieramente incapace di lavorare per sostentare la famiglia, è anche un uomo che si porta in tasca le briciole per i piccioni. E alla fine è questo che resta di lui, i passeri che beccano le patatine in un giorno di sole, la solitudine e la tenerezza verso gli animali di un uomo che non ha mai avuto accesso al mondo degli uomini – che forse avrebbe voluto, o invece ha preferito essere come la madre, «una bestia selvatica che guarda il mondo con occhi muti, che non fa altro che scappare per cercarsi ogni volta un nuovo rifugio». E che porta con sé fino alla fine traumi non solo personali ma anche collettivi, come i ricordi spezzati degli anni della guerra, della campagna di Russia, che riemergono solo quando ormai non c’è nessuno ad ascoltare, solo quando farnetica nel letto di una casa di riposo.

La bellezza di L’unica notte che abbiamo sta forse proprio nelle cose perdute. Nel fatto che da una fotografia la protagonista riesca a intravedere un pezzo di storia familiare, ricostruito con la memoria o con le ricerche, ma che sia solo un frammento, una parte minuscola di tutto l’accaduto e dimenticato, del mai registrato, del mai raccontato e portato nella tomba da qualcuno.

È pieno di memorie, di oggetti persi che non c’è speranza di riavere: come i diari di Georgette, in cui una presunta verità era stata messa per iscritto solo per la protagonista, ma che vengono distrutti dal padre dopo la sua morte. Capirai tutto quando non ci sarò più, le dice la madre, ma la protagonista è destinata a chiedersi per sempre quali fossero le sue verità, e se non fossero alla fine solo le sue solite fantasticherie malinconiche.

È la scrittura ricorsiva e ipnotica di Miorandi ad accompagnare in questo viaggio, una scrittura che si spinge in avanti e poi torna a riprendere per mano il lettore, che riavvolge più e più volte il filo di uno stesso pensiero: una nenia inquieta ma ammaliante, come lo sciacquio delle onde.

Con questa voce l’autore riesce a raccontare anche le vicende più crude, le vite più abbrutite, e infondervi quiete – forse quella della patina del tempo. È qualcosa nella sostanza della lingua che usa, venata appena di regionalismi senza che questo ne comprometta mai l’eleganza, che gli permette di dare voce alle persone più basse, agli uomini bruti della valle; e forse nella sintassi, nei gangli della lingua, nella compostezza del pensiero e dell’espressione. Nel tentativo di dare pace ai morti attraverso l’esercizio gentile del raccogliere una storia.

«Mi chiedo se ogni essere umano non sia per caso chiamato a prendere in consegna la voce di almeno un altro essere umano, se ogni vita non debba offrire la propria voce, per quanto flebile essa sia, ad almeno un’altra vita».

È ciò che fa Paolo Miorandi in L’unica notte che abbiamo: dà voce non solo a una donna, ma anche a una povertà spirituale prima che materiale, a un abbrutimento universale ma ancorato in modo indissolubile a un lago sempre sferzato dal vento, a una terra e alle sue uniche circostanze – che forse, soltanto, sarebbe stato meglio non lasciare sospesa nell’artificio di generici Città e Paesi, ma chiamare invece con il suo nome, dandole la dignità della propria storia, per quanto dolorosa. Ascoltare e raccontare, con l’empatia necessaria per perdonare al posto chi non ha mai potuto farlo, e lasciar andare il passato.

 

(Paolo Miorandi, L’unica notte che abbiamo, Exòrma, 2020, 249 pp., euro 16, articolo di Daria De Pascale)

 

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