Parachutes e i primi vent’anni dei Coldplay

Breve storia del gruppo di Chris Martin

di / 15 luglio 2020

C’è stato un periodo in cui i Coldplay avevano il potenziale per diventare i nuovi Radiohead. Ce li ricordiamo i Coldplay, quei Coldplay. Ce lo ricordiamo Chris Martin. Quante speranze. Fa strano pensarci oggi, vent’anni dopo l’uscita di Parachutes. Sapendo cos’è successo e come si è sviluppata la loro carriera.  Ma è stato così.  Il gruppo di Chris Martin era riuscito a scrivere un album decisamente maturo per essere un esordio, lontano dalle suggestioni del brit pop, che in quegli anni iniziava a mostrarsi meno efficace rispetto al passato.

Gli Oasis, infatti, solo qualche mese prima pubblicavano Standing On The Shoulder Giants, momento in cui il gruppo dei Gallagher inizia prepotentemente la sua discesa verso un’inferno di insensatezze e pochezza di idee. Gli Oasis erano il passato, i Blur (o meglio Demon Albarn) provavano a stare al passo coi tempi reinventandosi come Gorillaz. Il futuro della musica era stato tracciato dai Radiohead, che tre anni prima avevano scritto Ok Computer. Ed è questa la strada che i Coldplay intraprendono.

C’è da dire, comunque, che Parachutes non è prettamente erede diretto di Ok Computer:  strutturalmente sono due album differenti. Non ci sono,  nella prima esperienza di Martin, quei guizzi estemporanei quasi prog  (l’episodio di “Paranoid Android” su tutti) o quella capacità di riscrivere le regole del rock, proiettandolo verso qualcosa che ancora non è. Non c’è, sicuramente, il perenne sguardo sul futuro che rende Ok Computer l’album più importante degli ultimi venticinque anni.  C’è, invece, uno sguardo verso la cristallizzazione del presente e magari un occhio verso un futuro recentissimo. I Colplay sembrano comunque capaci di parlare un linguaggio che si trova sulle frequenze di quello dei cinque di Oxford.

Allo stesso tempo, però, esistono dei punti in comune: “Karma Police” è padre putativo di “Trouble“,  certe sospensioni di “Let Down” le possiamo ritrovare lungo tutto l’album (“Spies” e “Sparks“), l’alienazione di “The Tourist” è sparsa qua e là, certi tappeti sonori tipici di Ok Computer possiamo ritrovarli in “High Speed“.

In Parachutes è tutto molto chiaro e controllato, i brani non si sbottonano mai più di tanto. Tutto è conforme a sé stesso.  Entrare dentro Parachutes significa aprire senza far rumore le porte di una vecchia sala da ballo. Parachutes è un album sussurrato. Ci troviamo all’interno quello che poi, in parte, troveremo l’anno successivo con Reveal dei R.E.M., forse l’album più sottovalutato di Michael Stipe e compagnia, ma dotato di una profondità espressiva con pochi pari. Quella capacità di trattare il pop con occhi nostalgici dei grandi autori.

L’ingegno è stata quella di andare a prendere certi spunti di The Bends, ripulire le chitarre e provare a creare un universo sonoro che potesse andare a sposarsi con Ok Computer. Da alcune angolazioni, Parachutes sembra un negativo apocrifo del secondo album dei Radiohead.

I Coldplay, quindi, erano riusciti a scrivere un album enorme nel suo essere discreto, capace di captare un mondo che andava scomparendo e gettando le basi per una carriera luminosa. Insomma: I Coldplay potevano diventare uno dei pilastri della musica del nuovo millennio.

E fino a un certo punto ci sono pure riusciti. A Rush Of Blood To The Head  è un secondo album notevole, pieno di istant classic (“The Scientist“, “Clocks“, “God Put A Smile Upon Your Face“) e una scrittura continua che  non trova intoppi e che, addirittura, per alcuni aspetti può anche farsi preferire al suo predecessore. I Colplay erano riusciti a confermarsi, mancava forse ancora il capolavoro assoluto, ma la strada poteva far ben sperare.

Per molti  X&Y è l’inizio della mutazione dei Coldplay da grandi autori pop a generatori di marchette.  È vero che in quel tour iniziavano a farsi vedere componenti da gruppo da stadio, palloncini e coriandoli e simili. Quindi da questo punto di vista può essere un’affermazione verosimile. Ma bisogna fare attenzione, perché le sonorità di quest’album sono comunque in linea con quello che lasciava A Rush Of Blood To The Head. Anche i brani più maliziosi, come per esempio “Fix You“, avevano dentro di sé una storia credibile da raccontare. O “Speed Of Sound“, figlia di “Clocks“, risultava tremendamente efficace e non ambigua.

Quindi il buco nero che va dal 2008 al 2014, due album di una pochezza enciclopedica (Viva la vida Or Death And All His Friends, nonostante Brian Eno, e Mylo Xyloto), e il paragone della disgrazia che li ha accomunati ai Muse, altro gruppo il cui cammino grida alla scandalo. Ma se per il gruppo di Bellamy le speranze sono del tutto scomparse, per Chris Martin il discorso è ancora aperto.

Il mercato aveva vinto sull’arte. In quel lunghissimo frangente, i Coldplay avevano definitivamente cambiato muta, trasformandosi in un gruppo che voleva forzatamente farsi piacere da tutti, con scelte banali e cliché insopportabili. Tra il 2004 e il 2007 gli Arcade Fire prendevano lo spazio che sembrava destinato a loro. Funeral e Neon Bible riscrivevano le regole del gioco: i Coldplay abbandonavano il tavolo. Avevano abdicato, preferendo un pop posticcio degno del peggio delle boy band. Nel giro di pochi anni, i Coldplay si erano trasformati da gruppo di punta a gruppo dozzinale di cui, francamente, non si sentiva la necessità. I Coldplay erano morti.

La disgrazia che passa da “Life In Technicolor ii“, scontrandosi  con “Mylo Xyloto” e infrangendosi definitivamente con “Paradise” e “Charlie Brown“, sparisce momentaneamente con un album che non regala particolari emozioni, ma che paragonata al recente passato è oro che cola: Ghost Stories. Forse un po’ troppi boniverismi, ma non si può avere proprio tutto. A questo segue un altro errore, A head Full Of Dreams. Sulla scia di Mylo Xyloto, i Coldplay riescono a rituffarsi in quel mare di ovvio, cori da stadio, ooohhhh-ohhhhh, e davvero poco altro.

Poi, quando le speranze sembravano andate definitivamente (Ghost Stories è stato un abbaglio), arriva il 2019 ed esce Everyday Life. World Music, afrobeat, gospel. E ballate alla Coldplay vecchia maniera – l’ultima traccia, “Everyday Life” può essere senza problemi uno dei loro brani migliori di sempre. Incredibile. Incredibile che sia successo davvero.

I Coldplay esistono ancora, e per chi li ha amati dagli esordi non può che somigliare al rivedere un vecchio amico dopo tantissimi anni. E non possiamo che essere contenti.

 

 

 

 

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