Il depistaggio di Quarin

A proposito del romanzo “Di sangue e di ferro”

di / 22 settembre 2020

Copertina di Di sangue e di ferro

Di sangue e di ferro di Luca Quarin (Miraggi Edizioni, 2020) è un romanzo imperniato sul depistaggio: la parola chiave che accompagna il lettore dall’inizio alla fine. La vicenda prende spunto dalla strage di Peteano del 1972 in cui rimasero uccisi tre carabinieri. Peraltro quella è l’unica strage messa in atto dall’estrema destra, durante gli Anni di piombo, che ha un reo confesso, che ha rivendicato l’attentato e se n’è assunto la paternità. Per tutte le altre stragi di matrice nera, invece, abbiamo ipotesi, sentenze e condanne ma nessuna ammissione da parte dei colpevoli processuali che continuano a professarsi innocenti – penso a Fioravanti e alla Mambro per la strage di Bologna.

Il protagonista di Di sangue e di ferro si chiama Andrea Ferro (e qui c’è già un cortocircuito con il titolo). Andrea Ferro è figlio – e orfano – di una coppia morta in circostanze poco chiare, subito dopo la strage di Peteano. Probabilmente vittime di quel primo depistaggio attuato dalle forze dell’ordine che, inizialmente, avevano posto la loro attenzione sulla matrice di origine comunista. Qui comincia il primo intreccio fra fiction e Storia che Quarin applica per tutta la narrazione. Anche i documenti che riporta, articoli di giornale, atti della Commissione stragi, si alternano fra reali e di fantasia depistando spesso il lettore. E sull’aggettivo “reale” bisognerebbe aprire un capitolo nel suo rapporto col “vero”, che mi riservo di approfondire più avanti.

Ferro è un cinquantenne precario, assistente universitario, che per arrotondare legge manoscritti per una casa editrice e si diletta a suonare cover di country americano. Vive a Torino ma è di Udine. E a Udine torna poiché sua nonna Antonia, con cui è cresciuto alla morte dei genitori, sta male: soffre di demenza senile ed è in fin di vita. Questo ritorno alle origini spinge Andrea Ferro a voler recuperare la memoria storica delle vicende personali che intrecciano quelle storiche. Vorrebbe chiedere aiuto a sua nonna, che nei pochi sprazzi di lucidità gli dà informazioni che poco dopo però, riassalita dalla demenza nega o cambia. È così che si attua un nuovo depistaggio: il ricordo è verità? La memoria riconduce alla realtà?

Rieccoci dunque all’indagine su cui si concentra Quarin nell’intera narrazione. Qual è il rapporto tra realtà e verità? A pagine 105 l’autore fa dire a un suo personaggio che «la storia spesso non sa che cosa farsene della verità». E allora poco più avanti Andrea Ferro si chiede se tocca a lui «ristabilire la verità? O toccava alla verità trovare la strada per rimettere al loro posto le cose?».

Ma cos’è questa verità che il protagonista cerca? In realtà non lo sa neanche lui; comincia attraverso la ricostruzione dei fatti che portarono i suoi genitori a morire perché implicati nella strage di Peteano, ma pian piano perde aderenza alla realtà, incalzato da uno scrittore di cui sta leggendo un manoscritto, che non fa che scrivergli mail petulanti, fastidiose e talvolta aggressive.

Qui il primo colpo di scena. Lo scrittore che infastidisce Andrea Ferro si chiama Luca Quarin. Si crea allora un cortocircuito metanarrativo, che rimanda subito al racconto Città di Vetro della Trilogia di New York di Paul Auster, quando il detective Quinn si imbatte appunto in Paul Auster. Così Quarin continua il suo personale depistaggio, come i famigerati servizi deviati, fino a stuzzicare Ferro che prende a odiarlo, a detestare il manoscritto e le mail che gli scrive, fino a desiderare di malmenarlo. È a questo punto che si svolge una delle scene più belle e autoironiche del romanzo, quando Andrea Ferro in un bar è convinto di riconoscere in un avventore Quarin, e gli si lancia addosso e lo picchia. Purtroppo per Ferro il tipo non è Quarin, il quale invece seguiterà a pedinarlo, a osservarlo da lontano, a porgli domande fastidiose e a minargli anche le poche certezze letterarie e intellettuali.

Il romanzo raggiunge così l’apice; Andrea Ferro si trova chiuso e schiacciato da due Luca Quarin, da un lato l’autore, dall’altro il personaggio, che a sua volta è autore in un gioco di specchi destinato a propagarsi all’infinito. E come per magistrati e storici diventa complesso farsi largo tra documenti e testimonianze, spesso false, per ricostruire i fatti e i colpevoli delle stragi, così per Ferro diventa complesso comprendere quale realtà stia vivendo, quale sia il suo passato e la sua identità. A quel punto, finisce per pensare che «un giorno sarebbe toccato anche a lui precipitare giù dalla sua storia, […], come capita a tutti quanti».

Di sangue e di ferro è prima di tutto un romanzo metaletterario; è anche vero però che, grazie a una scrittura incalzante, si ha sempre l’impressione che stia per succedere qualcosa di imprevedibile a livello di plot. In questo modo, una trama si crea per forza di cose. Ecco un altro punto a favore di un romanzo che altrimenti rischierebbe di essere troppo cerebrale, e invece riesce a coinvolgere il lettore.

Anche se una critica la si può muovere a Quarin, soprattutto nelle prime pagine, quando si ha l’impressione di un certo autocompiacimento stilistico, quando cerca a tutti i costi il guizzo lessicale o talvolta quando esagera in alcune descrizioni da realismo isterico di una letteratura di fine Novecento, inizi Duemila.

A ogni buon conto sono parecchi gli spunti e gli interrogativi di natura critico-filosofica (anche qui, forse troppi?) che fornisce l’autore, uno su tutti è l’attacco al genere letterario dell’autobiografismo e a quello dell’autofiction, definiti generi di stampo sovranista. Questa di Quarin sembrerebbe una provocazione, invece viene ben spiegata nelle pagine del romanzo. Muove i suoi passi dalla ricerca identitaria che è alla base di ogni storia autobiografica, oltre che dalla fusione tra realtà e verità di cui abbiamo parlato abbondantemente. Parlare di sé come rivendicazione di esistere, di riconoscimento identitario, a costo di sacrificare la verità. Una critica che mi trova sostanzialmente d’accordo, anche se io partirei da un altro punto di vista, cioè quello del richiamo voyeuristico che nutre l’egotismo – che però alla fine conduce lo stesso all’affermazione identitaria attraverso gli occhi dell’altro. Meriterebbe di certo una più ampia riflessione a livello critico-filosofico.

Per concludere, Di sangue e di ferro lo si può definire un romanzo postmoderno che l’autore fa di tutto per depistare continuamente verso la postverità.

 

(Luca Quarin, Di sangue e di ferro, Miraggi Edizioni, 2020, pp. 288, euro 19, articolo di Fernando Coratelli)
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